di Francesca Pascale
Immagine di Silvia Mengoni
Il cerchio è l’unica forma geometrica che è definita dal suo centro. […]
La terra, per definizione, ha un centro. E solo il pazzo che lo sa può andare
dove vuole, perché tanto sa che il centro lo terrà giù, impedendogli di volare
via fuori orbita. Ma quando la percezione del centro diventa confusa, arriva
sibilando in superficie, l’equilibrio si è rotto. L’equilibrio si è rotto.
L’equilibrio cara mia si è rotto.
(S. Kane, “Crave”)
Il teatro di Sarah Kane è un Pasto nudo che evoca l’omonima opera cinematografica di David Cronenberg ispirata al capolavoro di Borroughs. La drammaturga si mostra al pubblico attraverso una scrittura cruda, le immagini che rappresenta scuotono gli spettatori in uno fremito di orrore soprattutto quando li espone a scene di antropofagia e violenze carnali. Sarah Kane è stata una delle drammaturghe britanniche più coraggiose e ribelli del nostro secolo, la sua necessità di ricercare il vero è stata sempre animata, durante i suoi brevi ed intensi ventott’anni di vita, dallo spirito famelico di voler comunicare l’incomunicabile: l’oscenità, il pericolo, la fragilità, il dolore, il sangue, la carne, la vita, la morte. Nonostante il rischio temuto dai più, quello di essere stroncati ferocemente da pubblico e critica, la sua necessità di uno spazio dove essere libera di esprimersi non si è mai arrestata, e nessun posto, quanto il palcoscenico di un teatro, poteva permetterle un gesto così trasgressivo.
La piccola Sarah cresce fra le mura di una casa fortemente religiosa, i suoi genitori erano praticanti evangelici. Il fascino che subisce nel leggere i racconti biblici, in particolare quelli più brutali dell’Antico Testamento, la influenza fortemente dal punto di vista creativo già in età precoce. Fino ai diciassette anni, si considera una fervente cristiana, per poi successivamente rifiutare ogni forma di credo religioso. In una delle sue poche interviste rilasciate alla stampa, per difendere il suo lavoro dalla gogna mediatica, affermerà, senza nessun tipo di remore, che le letture principali della sua formazione furono proprio quelle della Bibbia, le cui immagini costituiscono un ampio repertorio di efferata violenza. La cifra stilistica di Sarah Kane è direttamente proporzionale al suo spirito inquieto, caratterizzato da un senso di vuoto, generatore di un appetito insaziabile, mai appagato. Una voragine alimentata non solo dalle forti crisi depressive che la tormentarono per tutta la vita, ma anche dalla situazione sociale in cui le sue opere e vita coincisero. Da un punto di vista storico, la generazione a cui apparteneva fu quella che maggiormente subì sulla propria pelle i dolorosi risultati della rigida politica, portata avanti dalla ferrea Margaret Thatcher e caratterizzata dai forti tagli al Welfare e dalle profonde ripercussioni che ebbero sulla società britannica. Testimone di un periodo storico che si affacciava sempre più sulla soglia dell’incertezza e affamata di verità, attraverso il suo gesto bulimico di scrittura, Sarah Kane è stata, per il teatro inglese contemporaneo, come il bambino protagonista della fiaba di Hans Christian Andersen, colei che non ha avuto paura di urlare a squarciagola, senza edulcorare violenza ed orrori, ciò che tutti vedevano ma nessuno aveva il coraggio di dire “Il Re è nudo”.
Nella sua drammaturgia sacro e profano si collocano sullo stesso confine: l’atto del sacrificio sui suoi personaggi, sia carnale che spirituale, in scena svolge la funzione di un rito, nonostante l’ambientazione sia quasi sempre caratterizzata da una natura intima e popolare, come nel caso della stanza sudicia dell’anonimo motel al centro delle vicende di Blasted.
Il filosofo e scrittore francese Georges Bataille nel suo saggio L’érotisme, pubblicato nel 1957, pone un’interessante e singolare riflessione antropologica sull’intima connessione tra i due volti del sacro e la loro incommensurabilità rispetto al mondo profano dell’utile, sottolineando quanto questo rapporto influenzi le sorti dell’umanità fin dai suoi albori.
Sempre e dovunque, un principio di divinità affascinò e oppresse gli uomini: essi riconobbero, con il nome di divino, di sacro, una sorta di ribollimento segreto, una frenesia essenziale, una violenza che si impadroniva di un oggetto, consumandolo come fuoco, trascinandolo alla rovina. […] La vita ansiosa e la vita intensa – l’attività incatenata e lo scatenamento – erano, in virtù delle regole religiose, al riparo l’una dall’altra. La sussistenza di un mondo profano, la cui base è l’attività utile, e senza il quale non si darebbe né sussistenza né beni di consumo, era regolarmente garantita. Il principio opposto non era per questo meno valido, senza l’attenuazione dei suoi effetti rovinosi, nei sentimenti d’orrore connessi al sentimento della presenza sacra. L’angoscia e la gioia, l’intensità e la morte si combinavano nelle feste – la paura conferiva il senso dello scatenamento e la consumazione restava il fine dell’attività utile. Ma non vi era mai contaminazione, nulla introduceva la confusione tra due principi contrari e inconciliabili
(G. Bataille, “L’erotismo“)
Secondo il filosofo francese, la letteratura moderna ha risemantizzato la reciproca esclusione tra il sacro, l’utile e il suo al di là – ovvero il volto grottesco e trasgressivo del sacro stesso. Così ha fatto anche il teatro moderno, basti pensare alle opere scanzonate e goliardiche di Alfred Jarry, fra tutte L’amore Assoluto, “accorgersi che la propria madre è vergine”, e Ubu Re. Sarah Kane, a suo modo e in tutt’altra epoca, si è votata a scombinare quest’ordine, creando una commistione totale fra ciò che vi è di sacro, di profano e di trasgressivo nella vita di ogni giorno; raccontando ciò, è stata in grado di mettere in pratica un tipo di scrittura che non ha confini né livelli, ma diviene un vorticoso dialogo fra eros e thanatos.
Nemmeno durante i periodi più tormentati dal male nero della depressione, Sarah Kane sarà in grado di arrestare il suo bisogno di esporsi al mondo, nemmeno quando, dopo la prima messa in scena di Blasted sarà stroncata ferocemente dalla critica, a causa delle forti scene con rimandi alla sodomia e al cannibalismo. Solo i critici Harold Pinter e Edward Bond prenderanno le sue parti, riconoscendone l’incredibile e precoce talento. Impavida di fronte al mondo, eppure estremamente fragile nella sua sfera più intima – “Scrivo la verità, e la cosa mi uccide” – confessa uno dei suoi personaggi più tormentati – Kane rivelava anche una capacità di scrittura capace affrontare in modo sottile la questione di genere. I suoi personaggi infatti sono portatori di storie intercambiabili, quasi sempre privi di un nome o di un corpo segnato che li possa imprigionare o etichettare in una determinata forma. Ma è con l’opera Crave, tradotta in italiano con il titolo Febbre, che l’autrice si spoglia dello stile violento dei suoi primi scritti, dando voce a una parte di sé più poetica e desiderosa di espiazione del proprio dolore, affamata e resa scarna non solo dalla rabbia e dall’amore: un desiderio ardente di essere amata, ma soprattutto di amare – “E non so come non so come non so come comunicarti qualcosa dell’assoluto eterno indomabile incondizionato inarrestabile irrazionale razionalissimo costante infinito amore che ho per te”.
Leggere e conoscere Sarah Kane ha reso anche me affamata. Turbata nel profondo, mi sono ritrovata a divorare le sue opere, fagocitandole, una dopo l’altra, amandola sempre di più, incondizionatamente. Le sue parole hanno avuto la forza di sconvolgermi, al punto di terrorizzarmi a volte, e il sentimento perturbante che è riuscita a scatenare in me è divenuto al tempo stesso catartico. Il teatro di Sarah Kane è crudele perché puro e scevro da ogni vincolo sociale o morale, riporta gli individui che ne fanno parte a una condizione animalesca, in cui l’Es diviene il vero protagonista della narrazione, echeggiando il messaggio surrealista di André Breton ne L’amor fou: “La bellezza convulsiva sarà erotico-velata, esplosivo-fissa, magico-circostanziale, o non sarà”. Rileggendo queste parole non posso non pensare alla giovane Sarah Kane, morta suicida in un ospedale londinese durante una fredda notte di febbraio. Una delle artiste contemporanee che hanno dato meglio prova di aver compreso cosa intendeva Antonin Artaud con l’espressione “Teatro della Crudeltà”.
Senza un elemento di crudeltà alla base di ogni spettacolo, non esiste teatro. Nella fase di degenerazione in cui ci troviamo, solo attraverso la pelle si potrà far rientrare la metafisica negli spiriti
(A. Artaud, “Il teatro e il suo doppio”)
Volgendo lo sguardo alle opere di Kane, si ha come la sensazione di vedere questa giovane e irrequieta ragazza britannica prendere le parole di Artaud e trasformarle in carne, incorporarle nella propria persona, rendendo teatrale non solo la propria vita, ma addirittura la propria morte. È stata una donna dall’animo sensibile, che si tramutava in belva famelica nel momento in cui la sua mano si posava su carta e penna, una belva mai completamente sazia, nemmeno nel momento in cui la terra le è stata lieve.