La filosofia di Patrizia Cavalli

di Francesca Plesnizer

Evocando e procedendo attraverso immagini, parole e tematiche, ripercorro quella che credo si possa definire “la filosofia di Patrizia Cavalli”, poetessa italiana nata a Todi nel 1947 e scomparsa ormai più di due anni fa. Le fonti che mi vengono in aiuto sono innanzitutto le sue poesie1, ma anche il documentario Le mie poesie non cambieranno il mondo (2023) scritto e diretto da Annalena Benini e Francesco Piccolo, attualmente disponibile su Raiplay.

Definizioni, scrittura e poesia

Quando ci si approccia a un autore o ad un’autrice che non si conosce, la prima cosa che viene spontaneo fare è trovargli o trovarle una definizione. Patrizia Cavalli era una poetessa – ma forse lei avrebbe semplicemente affermato «Scrivo poesie», come disse a Elsa Morante, che ammirava tanto e sulla quale sperava di fare colpo. Perché sentiva l’esigenza di scrivere? Forse non c’è un motivo, la sentiva e basta: le parole le giungevano alla mente – magari durante una passeggiata – e lei doveva scriverle. Nel documentario c’è una sequenza che vede una giovane Patrizia intervistata; un giornalista le chiede se la poesia, strumento comunicativo da lei scelto, sia un mezzo privilegiato oppure limitato. Lei risponde che è una modalità comunicativa privilegiata, poiché è proprio la sua limitatezza che assegna valore alla comunicazione: «Il fatto di non voler dire tutto, per me è come dire tutto». Poi specifica: «Se scrivo una poesia non posso pensare per chi la scrivo, la scrivo e basta. Non so se voglio veramente comunicare delle cose, sono gli altri che decidono se le cose che io scrivo gli interessano o no». L’intento della poetessa era quello di scrivere, non di comunicare: «Comunicare è una cosa secondaria che non riguarda più me».

Le sue prime poesie, racconta Patrizia, erano “letterarie”, false, «non ci si capiva niente». Ma arriva finalmente l’incontro con l’idolatrata Elsa Morante, che le chiede di leggere le sue liriche per vedere “com’è fatta”. La Morante vuole scrutarla dentro e in profondità, vuole verità e consistenza. E Patrizia, allora studentessa di filosofia, brancola nel terrore più puro per sei mesi, riscrivendo le liriche daccapo, giudicando quelle già scritte impresentabili. Perché lo fa? Non per venalità poetica, ma perché vuole guadagnare l’amicizia della Morante. E ci riesce: la scrittrice la definisce, infine, una vera poeta. Una poeta che scrive con parole di tutti i giorni, parole semplici che danno forma a poesie feroci, trancianti, secche e talvolta aride e al contempo dolci e lubrificanti come un balsamo. Scrive di ciò che sente, che è poi ciò che tutti possiamo sentire, ci porta con sé facendoci intravedere – sempre e solo intravedere – immagini struggenti, belle, solitarie, sempre umane. Una scrittura che si pone (inconsapevolmente o meno) dei limiti, e proprio per questo risulta sconfinata.

I suoi momenti di scrittura erano difficili, angosciosi: come un’onda o una “visione della lingua”.

E quindi come definire la sua poesia? Poesia d’amore? Di sofferenza? Poesia impegnata? Poesia e basta, parole e basta. Quando le chiedono, sempre in una vecchia intervista, dove collocherebbe la sua poesia e quali sono i suoi maestri, lei, affascinante, perplessa e sfrontata in un modo mai maleducato, risponde: «Beh, posso dire quali sono i poeti che amo molto… Sandro Penna, Elsa Morante, Raboni… ma adesso non posso fare una lista! Veramente io non so dove mettermi, anche perché non me lo sono mai chiesto».

Anche quando sembra che la giornata
sia passata come un’ala di rondine,
come una manciata di polvere
gettata e che non è possibile
raccogliere e la descrizione
il racconto non trovano necessità
né ascolto, c’è sempre una parola

una paroletta da dire
magari per dire

che non c’è niente da dire.2

Corpo, malattia e morte

Il corpo è strumento d’amore, un mezzo, un tramite. Senza corpo non c’è poesia, non ci sono parole, non c’è esperienza. Il corpo freme, tocca e vuol essere toccato, ma può anche respingere ed essere respinto. Può dare forfait, come quando Patrizia si è ammalata di cancro. Ma, curiosamente, la poetessa afferma nel documentario di trovare nella malattia uno strano conforto: «Come se avessi sostituito con questa malattia, delle parti delicate, difficili e dolorose, e ho fatto governare alla malattia tutto, e in un certo senso mi rassicura». La malattia la fa camminare incerta, inciampare, ma le fa anche amare bambini e animaletti, cosa per lei inedita. La malattia del corpo la rende umana, la rende ciò che è, senza intaccare la sua identità.

[…] potrei vedere il mio viso scomparire
ingigantito o perso, la pelle
impallidire per poco sangue
o troppo ormai pesante;
guardare indifferente
la discesa dei muscoli, la carne
che si rovescia su se stessa […]3

Avevo un corpo bugiardo e compiacente
servo ammiccante ai miei travestimenti
felice dei miei amori negligenti
pronto a ogni parte anche se ero assente.

Eccolo adesso moralista forsennato
non ubbidisce più alle mie bugie

e mi risponde torvo a malattie.4

E la morte? Non la teme, ne ha un’idea astratta: la morte limita la vita e la lascia sospesa, e tale sospensione in un certo senso cancella (solo per finta) la morte stessa, come se la poetessa avesse raggiunto immortalità o eternità.

Eternità e morte insieme mi minacciano:
nessuna delle due conosco,
nessuna delle due conoscerò.5

Quanti saluti prima di partire!
Come faccio a morire!6

Amore, innamoramenti e gelosia

L’amore, soprattutto quello carnale, è stato imprescindibile per Patrizia: ha contribuito a creare la maggior parte delle sue poesie. Amori per lo più tristi, perché: «Di solito è ciò che manca, che fa esistere le parole». Amori sempre attesi, in sospeso: la poetessa confessa di non essersi mai dichiarata; ciò che secondo lei rendeva sublime l’amore, era l’attesa di quel momento in cui «Nessuno dichiara ma tutte e due dichiarano». Anche in questo caso, come nella sua scrittura, un limite, ossia il non voler fare nulla, è come fare tutto, avere tutto. «Cosa c’è di più bello quando sai che una cosa è, e non la fai avvenire?» dice estatica.

Curioso che Patrizia sia stata, per sua stessa ammissione, una persona estremamente gelosa – curioso perché non voleva etichette di nessun tipo. Ma voleva di certo essere amata, essere l’unica – forse, probabilmente – essere vista e riconosciuta, brillare, ammaliare. La gelosia è dolore, senso di esclusione, eppure è anche un sentimento per certi versi glorioso, nella sua voglia di esclusività, un’emozione egoistica ed egocentrica, la voglia di essere un sole, attorno al quale tutto gira.

Patrizia ha amato, in modo platonico, sentimentale, erotico. Ha amato Diane (per lei Diana), accademica inglese, conosciuta nello strabordante ‘68 (esilarante che le si sia presentata dicendo «I’m Patrizia Cavalli, Horses!»), alla quale una notte, da ubriaca, ha anche tagliato i capelli mentre Diana dormiva, perché furibonda con lei. Ma ci tiene a dire che non gradisce etichette, non vuole che le si definisca una coppia, nella sua vita ci sono state tante altre persone. È cinismo? Forse. O magari è solo voglia di libertà e amore per la vita, nel senso più profondo che possiamo immaginare.

Tu dormi nel mio letto
ora ti guardo. Ti abbracci al mio cuscino
e mi allontano. Perfezioni il bonsai
del nostro amore con un sonno segreto
di due ore.7

[…] Ma d’amore
non voglio parlare,

l’amore lo voglio
solamente fare.8

A volte mi fingo innamorata:
come si infiamma la vanità
delle mie vittime! […]
9

Due ore fa mi sono innamorata.
Tremo d’amore e seguito a tremare,

ma non so bene a chi mi devo dichiarare.10

Vita, disordine e gioco

«Fa parte della mia natura, non è che ho una natura ordinata, che procede, è tutto “un po’ così”» dice Patrizia quando parla a tavolino con Benini e Piccolo su come strutturare il documentario su di lei. Patrizia procedeva, nella vita, senza un ordine preciso o prestabilito. Camminava su sentieri accidentati, all’inizio sola e strafottente, incurante, dove la portavano il vento, le emozioni, gli innamoramenti, gli accadimenti (interni ed esterni). Nel documentario cita un amico di Todi (sua città natale), omosessuale e più grande di lei, che è stato fondamentale: la portava in giro e l’ha fatta arrivare a quella che lei chiama “la sua vera vita”, fatta di luoghi, affetti, amicizie, abitudini che sono poi divenuti stabili e duraturi.

Una parte rilevante della vita di Patrizia è stata anche il poker: racconta di aver giocato tanto e perso altrettanto. Ciò che l’attirava del gioco era un entusiasmo vitale, legato alla buona sorte; ma, molto rapidamente e senza preavviso, la sorte poteva divenire malevola, trascinare verso un baratro di fallimento che le ha, per sua stessa ammissione, rovinato la salute. Finché non ha provato ripugnanza e ha deciso di smettere del tutto. Ma anche questo suo tratto evoca una vita non ordinata né ordinaria: un affidarsi ai movimenti imprevedibili del fato e della fortuna, che porta sul podio e poi getta nell’oblio. Ma è vita anche questa, in un modo esagerato, sensazionale.

Riderò sparlerò
racconterò bugie.

E domani l’avrò già dimenticato.11

[…] Così dimentico sempre
l’idea principale, mi perdo

per strada, mi scompongo
giorno per giorno ed è vano
tentare qualsiasi ritorno.12

Ogni giorno adesso in ogni istante
in ogni parola c’è tutta la mia vita,
gloria o rovina mi vince per eccesso.

Amore è presunzione del suo stato.13

Verità

Era autobiografica la sua poesia? Sì e no, del tutto e per niente. Tutto quello che scriveva, anche se non era stato esperito, era vero, racconta Patrizia. Perché quando qualcosa diventa parola è giunto allo stadio della verità, anche se non è accaduto: «Le cose non esistono finché non hanno trovato una forma linguistica». Che cos’è mai, questa, una verità poetica o letteraria? No, è solo la verità di Patrizia, ciò che dalla sua testa arriva alla penna e al foglio. Semplice, diretto, onesto. Anche se è solo ricordo distorto, immaginazione nostalgica, desiderio inaccessibile, frammento esterno captato per caso. Questo cambierà il mondo? No, ma ha cambiato Patrizia e può cambiare anche noi, aprendo squarci, finestre, finestrelle e possibilità, generando lacrime e sorrisi, fronti corrugate, palpitazioni. È verità potente, morbida e cinica, come lo era lei.

Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.14


Note

1 Tutte le poesie qui citate sono tratte da Patrizia Cavalli, Poesie (1974-1992), Torino: Einaudi, 1992.

2 Op. cit., p. 13.

3 Ivi, p. 96.

4 Ivi, p. 162.

5 Ivi p. 6.

6 Ivi, p. 113.

7 Ivi, p. 143.

8 Ivi, p. 9.

9 Ivi, p. 100.

10 Ivi, p. 129.

11 Ivi, p. 21.

12 Ivi, p. 53.

13 Ivi, p. 138.

14 Ivi, p. 5.

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