La Haine (L’odio): vendetta o perdono?

di Elisabetta Crevatin

Siamo nella banlieue di Parigi, 1995, in un giorno come tanti in cui, dopo uno scontro tra residenti e polizia, un ragazzo (Abdel) viene ferito gravemente durante dei “controlli”. Alcune immagini documentaristiche della celebre rivolta delle banlieue d’inizio anni novanta aprono il sipario cinematografico. Da qui parte la storia di tre amici di Abdel, che la cinepresa inizia a seguire poche ore dopo il pestaggio.
La scelta del regista, Mathieu Kassovitz, appare subito chiara: non ci saranno narratori esterni, nessuna ripresa che diluisca il racconto. Pellicola in bianco e nero, lo spettatore vive una ‘giornata-tipo’ della cruda periferia parigina, schiaffeggiato dagli aspetti della contro-cultura underground e indirizzato a scoprire i cortocircuiti burocratici che regnano nel luogo.
Vinz (interpretato del giovane Vincent Cassel), Hubert e Said sono tre personalità che si scontrano continuamente. Un ebreo, un nero e un magrebino che conducono vite involontariamente sregolate. Appartenenti a famiglie che hanno tutte almeno un membro incarcerato, i ragazzi oscillano nella precarietà del contesto tra la criminalità e la ricerca di uno spiraglio per iniziare a condurre una vita dignitosa. Ma da subito trasuda il ‘noi-e-loro’. Noi, residenti della banlieue, e voi, poliziotti, borghesi, giornalisti, politici, parigini del centro, corrotti, finti buonisti. Tre individui, non ancora adulti, si ritrovano a fare una scelta che segnerà tutta la loro vita: vendicare l’amico o redimersi. Seguire la strada che sembra già tracciata dalla loro nascita o iniziare a lavorare per un futuro diverso. La chiave di volta: una pistola ritrovata da Vinz subito dopo gli scontri.
L’arma da fuoco può essere emblematicamente considerata la vera protagonista del film, o meglio la pallottola contenuta in essa. Un solo colpo e la legge del taglione si avvererà, la testa di un poliziotto per la testa di Abdel. Vinz rappresenta il desiderio di pareggiare i conti a ogni costo, l’odio smisurato verso la vita a cui è stato condannato e verso i poliziotti che li trattano senza rispetto; si appella alla violenza nella vana speranza che questa possa restituirgli quell’onore che non ha mai avuto come uomo. Hubert, la resilienza, giovane pugile spacciatore, è un po’ più maturo degli altri, e sembra mosso dalla speranza di una vita migliore, la sua scelta è la fuga da un luogo in cui non c’è possibilità di superare l’oblio prescritto. Said, l’ignavo, colui che non sceglie, rimane per tutto il tempo passivo tra i due fronti, a buona ragione categorizzato come spettatore della storia.
In sole 24 ore vengono mostrati i tipici crimini commessi dai teppisti underground: spaccio di droga, furto d’automobili, occupazione e disturbo della quiete pubblica.
Parlando della polizia invece, la crudeltà e l’ignoranza la porta ad abbassarsi allo stesso livello di sciacallaggio. I residenti vengono trattati come animali, ogni motivo diventa buono per sedarli a suon di colpi di manganello:le forze dell’ordine aggirano la legalità corrompendosi  a ogni sorta di illegalità e non rispettando basilari vincoli giuridici (vedi la scena dell’interrogatorio di sangue che, durante la “gita” a Parigi, viene inflitto a Said e Hubert).
Una volta che i giovani giungono nel centro di Parigi per recuperare un risibile credito maturato da Said dal cocainomane Asterix, il tempo si fa sempre più serrato e la scelta diventa sempre più incombente: i ragazzi occupano il tempo litigando di continuo, alzando la voce, Vinz – dissuaso da Hubert – rischia anche uccidere un giovani nazi (interpretato per altro proprio dal regista Kassovitz, che si concede un curioso cameo). In questa spirale, mentre si trovano in un bagno pubblico, ecco che da una turca compare il portavoce della saggezza: un anziano sopravvissuto ai campi di concentramento. Il suo intervento è breve ma chiaro, narra metaforicamente la storia di un suo amico deportato, Grumvalski, anche lui costretto a un dilemma che lo condurrà alla vita o alla morte. Il bivio è tralasciare l’orgoglio, l’immagine di sè (in questo caso derivata dal farsi vedere nudo e indifeso) per riuscire a saltare sul treno in partenza oppure abbandonarsi alla morte. Grumvalski infatti, dopo essersi fermato insieme ad altri deportati per una sosta fisiologica, non riesce ad abbandonare i calzoni per rincorrere più agevolmente il treno che, nella bufera di neve, gli sta sfuggendo sotto gli occhi; pur di tenersi stretti i pantaloni penzolanti, il buon uomo, non riesce ad afferrare la mano tesa dell’amico, così perde il treno e si congela per il freddo. Il messaggio dell’anziano ebreo è chiaro: ‘Se voi ragazzi non lascerete da parte l’orgoglio, morirete’.
Citando Agostino d’Ippona (o qualsiasi persona dotata di buon senso), da odio nasce odio e il vendicarsi non riscatta nessuna vita. L’amore e il perdono moltiplicano, mentre la sofferenza non fa nient’altro che distruggere a sua volta.

‘È la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani… A ogni piano, mentre cade, l’uomo
non smette di ripetere: “Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene”.
Questo per dire che l’importante non è la caduta ma l’atterraggio.’

Questa affermazione, che nel film si ripete quasi ossessivamente, è il preludio di un finale che è una profezia che si auto-avvera. Dopo aver perso il treno di ritorno, seduti nella hall della stazione, i tre scoprono da un mega-schermo che Abdel è morto, la tensione sale, i tre nel frattempo rientrano nella banlieue, per un istante la speranza li illumina: Vinz – sconvolto – affida ad Hubert la pistola, perché vuole definitivamente disfarsene. Sembra un momento di svolta, ma non si ha il tempo di tirare un respiro di sollievo; subentra nuovamente il fronte nemico: la polizia vuole lo scontro, ferma, perquisisce e ridicolizza nuovamente i tre personaggi. Ricompare il vero protagonista, un colpo di arma da fuoco sparato distrattamente da una forza dell’ordine uccide Vinz. Silenzio, poi Hubert corre a vendicarlo, nuovamente sangue, violenza, odio e un’altra morte, un altro sparo. La morte li ha accolti e di questa terribile vicenda non se ne ricorderà nessuno, perché dopo di essa seguiranno altrettanti uguali, orrendi e inutili schianti. Così si chiude il sipario del film ‘L’odio’, vincitore per la miglior regia del 48° festival di Cannes.
Già di primo acchito i temi affrontati da questo film sembrano echeggiare notizie ben più recenti e ben note alla recente cronaca italiana e internazionale. Pensiamo ad esempio al caso Cucchi… per un banale spaccio di droga un uomo viene messo alla custodia cautelare, ma misteriosamente ne sussegue il decesso e la scoperta di gravi ematomi, derivanti dal periodo passato in carcere, oltre a segnali di malnutrizione e assenza di cure; ci sono tutti gli ingredienti per suscitare il dubbio che qualcosa non sia avvenuto, come nel caso dell’interrogatorio dei giovani del film, nel rispetto della legalità. La ciliegina sulla torta: sono passati 8 anni dall’accaduto e strano ma vero ad un passo in avanti ne segue sempre uno indietro, le prove sono ripetutamente insufficienti, insufficienti a purificare il torbido. L’ultima notizia (del 10 luglio di quest’anno) ha rinviato a giudizio i 5 carabinieri dopo averli sospesi dal loro incarico. Ma siamo al secondo processo d’appello oltre che l’inchiesta-bis.
Altro fatto allarmante è che dopo Cucchi nello stesso 2009 altri 26 casi sono stati scoperti di persone decedute in carcere per ragioni similarmente ‘misteriose’.
Come d’abitudine, però, stiamo diventando tutti abituati a lasciarci bombardare continuamente da queste notizie, che per un dato periodo di tempo amplificano ossessivamente una certa tematica, per poi scomparire non appena abbiano perso il loro appeal mediatico: come il ‘presunto’ autismo derivato dai vaccini, o un caso di cronaca nera, il riscaldamento globale o gli attentati terroristici; situazioni che nella realtà non scompaiono mai, ma che il lettore dimentica perché da un giorno all’altro si smette di parlarne. Il focus del giorno cambia rapidamente e da una tematica esasperata ne subentra una nuova condotta altrettanto allo stremo. Chissà, magari nel futuro ci sarà un nuovo caso Cucchi, o magari no, ma quel che conta davvero è non distogliere l’attenzione, non dimenticarsi delle storie o delle persone, perché il riscaldamento globale c’è ancora, i migranti pure, le periferie degradate anche, e non sarebbe così strano se un giorno ci accorgessimo che proprio nell’isolato vicino al nostro vivono, e muoiono, il Vinz o l’Abdel della situazione.

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