di Marco Catenacci
Quanto è difficile oggi (un “oggi” che continua ormai da oltre 20 anni…) accostare sinceramente e senza sensi di colpa gli aggettivi “nuovo” e “originale” alla descrizione di un film. Certo, c’è stato (o c’è ancora?) il postmoderno a ribadire tale concetto, a sottolineare come possa esistere un nuovo creato dall’assemblaggio (dal montaggio, ça va sans dire…) di elementi del passato, capaci di convivere liberamente nella stessa rappresentazione del mondo. Il “nuovo”, appunto, non sarebbe altro che una riproposizione del vecchio, originalmente ricombinato. E quando anche tutto questo resuscitare e rimescolare in modo ingenuo e divertito l’immaginario del passato (Tarantino, i Coen, e tutti gli altri grandi nomi da manuale di storia del cinema) si è in qualche modo disciplinato, diventando una corrente estetica ben precisa, ecco che sembra essere emerso il desiderio di rimettere assieme i pezzi, di ricostruire quello che il postmoderno aveva frammentato, di far rinascere il passato dalle sue ceneri; di rievocarlo il più fedelmente possibile, per riportare in vita un immaginario che il pubblico più giovane (e spesso, come in questo caso, lo stesso autore) non ha vissuto direttamente.
Il revival nudo e crudo, oggi, non è certo predominante, ma è capace sempre e comunque di far parlare di sé, di catalizzare l’attenzione del pubblico e della critica ancora mesi prima della sua presentazione. Prima che i cinque oscar a The Artist (tra cui film e regia) nel 2012 sancissero l’indiscutibile successo, oggi, di questo tipo di operazione (ovvero l’indiscutibile desiderio di ritornare nel passato, in un passato definito e circoscritto, non più frammentato e confuso), c’era stato Todd Haynes e il suo melodramma esplicitamente sirkiano Lontano dal Paradiso (2002); oggi ci sono J.J. Abrams, The Nice Guys, Stranger Things. In ogni caso, che sia il muto degli anni ’20, il melò dei ’50, il poliziesco dei ’70 o la fantascienza degli ’80, il desiderio (un po’ nostalgico, un po’ romantico) di ritornare in un immaginario che si credeva irrecuperabile sembra pervadere l’animo dello spettatore contemporaneo.
Ecco allora che l’operazione di recupero (salvataggio?) del musical classico della Golden Age hollywoodiana realizzato da Chazelle con La La Land, sembra collocarsi esattamente in questo spazio. La riappropriazione formale e stilistica è davvero impressionante, lo sforzo (e lo sfarzo) produttivo sinceramente coinvolgente, i temi in ballo perfettamente coerenti con i due film precedenti del regista (l’ambizione, la fatica e l’umiliazione attraverso cui bisogna passare per realizzarsi, l’impossibilità di conciliare la vita di coppia con il perseguimento dei propri sogni, il tempo di due sguardi muti, che devono solo dirsi addio). Chazelle, in definitiva, non chiede allo spettatore di azzerare il suo sguardo, ma di ritararlo, al fine di reimpostarlo su un modo di osservare il mondo che oggi non esiste più. Perché alla fin fine, l’impressione è che il musical serva al regista statunitense come pretesto per parlare d’altro o, meglio, per recuperare qualcos’altro, per far rivivere, appunto, una certa idea di mondo (reale o immaginato). “Perché dici romantico come se fosse una parola offensiva?”, ribadisce Ryan Gosling nelle prime battute del film. Per Chazelle l’elemento chiave che il musical classico deve (ri)portare nell’immaginario contemporaneo è proprio l’ideale romantico che sottende(va) a tale concezione del mondo, per ricondurre il romanticismo al suo livello più puro. Un’ambizione nobilissima e cavalleresca, certo, cui però fa eco un’idea della contemporaneità fin troppo banalizzata, la cui critica esibita a più riprese è a tratti davvero stucchevole.
Ed è qui che lo sguardo di Chazelle, da classicamente romantico e preciso nella rievocazione del passato, diventa retrogrado, lasciando intuire la sua incapacità di pensare all’evoluzione delle cose, in una dinamica che non sia solamente di preservazione-distruzione: le manfrine sulla morte della purezza nel jazz erano francamente evitabili,(Chazelle dovrebbe ascoltare attentamente come si è evoluto il genere con i Radiohead…), così come la parodia di tutto ciò che è nuovo, sia esso un gruppo pseudo glam che suona cover ad una festa, o una band sulla soglia del successo (l’assolo di tastiere con la mano in tasca è emblematico) perché rischiano di far trapelare un’idea di creazione artistica che non ammette il progresso, bloccata nel nostalgico e anacronistico (ma comunque, o forse proprio per questo, commovente) recupero di un ideale di purezza ormai decisamente (tra)passato. In definitiva, ciò che manca in questa fase a Chazelle non sono le intenzioni, ma il modo. Criticare il presente in questo modo, se da un lato è tutto sommato molto coerente con quello che era il linguaggio tipico del musical classico, dall’altro (o forse, più semplicemente, oggi) è fin troppo facile.
Il problema è che arrivato a questo punto Chazelle non riesce a sbrogliare le redini di questa dicotomia, di questo particolare aspetto del recupero del passato, e pare momentaneamente perdere la capacità di far entrare nel giusto modo il passato nel presente, di far esplodere con tutta la forza possibile il suo desiderio di recuperare la purezza (cosa che riesce, in tutt’altro modo, attraverso un tipo di discorso completamente diverso, a Wenders nel bellissimo Les beaux jours d’Aranjuez). Non di solo revival (non di solo idealizzato e puro passato) vive l’uomo. Ma di romanticismo, di quello, forse sì.