La macchina dell’eterno presente

di Livio Cerneca

La prima volta che avevo sentito nominare l’acido lisergico ero adolescente e la mia fonte erano state le poesie di Allen Ginsberg. Sarebbe però dovuto passare ancora un po’ di tempo prima che decidessi di sperimentare su me stesso la sostanza sintetizzata nel 1938 dal professor Albert Hofmann mentre, nel suo laboratorio a Basilea, era alla ricerca di qualcosa per combattere i sintomi dell’influenza.

Mi documentai e lessi molto sull’argomento. Confortato dalle testimonianze di prestigiosi scienziati e letterati – tra i quali Aldous Huxley e il premio Nobel per la chimica Kary Mullis, oltre che lo stesso Albert Hofmann, che usò l’LSD frequentemente per tutto il resto della sua vita senza che questo gli impedisse di raggiungere in buona salute i 102 anni di età –, mi convinsi che qualche gita in quelle lande proibite si poteva fare.

L’occasione si presentò durante una pigra estate in cui si era sparsa la voce che in città stava arrivando una partita di LSD affidabile e di qualità superiore. Produzione tedesca, probabilmente, visto che li chiamavano “acidi berlinesi”.

Mi aggregai a un gruppo di persone che avevano deciso di trascorrere una notte sulla spiaggia. Scoprii che solo pochi di noi avrebbero preso l’acido e immaginai che si trattasse di un accorgimento di buon senso: forse, per evitare che qualcuno si facesse male, era stato predisposto una specie di informale servizio di sorveglianza in modo che quelli che si astenevano avrebbero potuto tenere d’occhio i viaggiatori. La mia ottimistica supposizione iniziò a vacillare quando vidi che gli angeli custodi si stavano dedicando con abnegazione al confezionamento e alla degustazione di enormi cannoni di hashish. Più avanti avrei capito che anche tipi coriacei e abituati a ogni genere di stravizi preferivano tenersi alla larga dall’acido. Chi si diverte a prendere droghe non necessariamente è interessato all’LSD perché l’LSD, benché sia classificato come sostanza stupefacente, lo è quanto possono esserlo la meditazione, la psicanalisi o il sogno.

Il cielo era nuvoloso, si intravedeva all’orizzonte il bagliore arancio di un tramonto opaco. Qualcuno stava mettendo le birre in fresco nell’acqua bassa di una pozza rocciosa del bagnasciuga. Delle ragazze chiacchieravano e ridevano sedute vicino al fuoco che era appena stato acceso. Gli uccelli cantavano nella boscaglia che ricopriva il dirupo a ridosso della spiaggia.

Con involontaria solennità, un giovanotto dai capelli lisci e le guance cave distribuì ai pochi volontari l’eucaristia acida. L’emaciato sacerdote mi porse il dito indice: sul polpastrello era posata una briciola grigiastra, un frammento a malapena visibile. Com’era possibile che in quel granello microscopico fossero racchiuse tutte le meraviglie di cui avevo letto le descrizioni? Misi sotto la lingua la particola e me ne dimenticai.

Stava facendo buio e cominciavamo ad avere fame. Saltarono fuori dei würstel ma nessuno aveva pensato di portare una graticola. Per fortuna tutti avevamo letto Topolino e ricordavamo ancora bene come Qui, Quo e Qua arrostissero le salsicce quando erano in campeggio con le Giovani Marmotte. Bastava infilare la salsiccia cruda in un rametto e tenerla sospesa sopra il fuoco. I disegnatori non si erano mai soffermati però sul fatto che il rametto, essendo di legno, aveva la tendenza a incendiarsi. Facendo attenzione e ricalibrando continuamente la distanza dalla fiamma, la cottura proseguì in ogni caso con un discreto successo.

Ero tutto concentrato per cercare di non bruciarla, quando mi accorsi che la salsiccia si stava divincolando sullo stecco. Si torceva, flettendosi alle estremità, come se volesse liberarsi da quella scomoda posizione. Incredulo, strizzai gli occhi per guardare meglio. Mentre tentavo di seguire gli spasmi del würstel, percepii un chiarore in alto. Sollevai la testa. Le fiamme proiettavano bagliori sulla vegetazione, animandole di lampi e intermittenze incandescenti dalle quali aveva preso forma qualcosa di enorme. Imponente, maestoso, alto una decina di metri, un Buddha scolpito nella chioma di foglie dorate di un albero splendeva sorridente, osservandomi con benevolenza. La visione era talmente vivida, reale, nitida, che non mi passò minimamente per la testa di metterla in relazione con l’acido. Lo sgomento fu causato più dalla sorpresa che altro: non sentivo alcun disagio fisico, stavo benone, ma tutto quello che avevo letto non era riuscito neanche lontanamente a prepararmi a ciò che stavo vivendo. Del resto, anche se ci preparassimo studiando i resoconti degli astronauti, non proveremmo meno emozione e stupore se di colpo ci trovassimo sulla Luna. Solo che qui non si trattava di raggiungere la Luna, ma di essere parte dell’Universo stesso. Ero dentro di me come mai mi era successo prima e allo stesso tempo connesso con tutto ciò che mi circondava. L’impatto con questa consapevolezza scosse le fondamenta dell’Io come un terremoto fa tremare l’abitazione che fino a un momento prima sembrava il posto più sicuro del mondo.

Scesi agli Inferi. Gridavo, annaspavo, mi aggrappavo a quelli che mi stavano intorno. Qualcuno sembrava spaventato dalla mia reazione, altri si spanciavano dalle risate. Non avevo più nessun controllo, ero trascinato dalla corrente verticale dell’abisso, avevo paura. Tuttavia, a un certo punto risalii in superficie e vi trovai una calma celestiale.
Era notte fonda, né stelle né luna, il fuoco ormai spento, eppure c’era ancora luce, un crepuscolo azzurrino e uniforme che si stendeva fino all’orizzonte, nettamente tracciato alla fine della placida distesa di mare. La verità era che là fuori era buio pesto, ma le mie pupille erano talmente dilatate che, come il diaframma aperto di una macchina fotografica, riuscivano a catturare ogni fotone disponibile e mi consentivano una vista felina.

Seduto accanto ad un amico, anche lui nel bel mezzo del trip, osservavo il mondo dall’alto mentre il tempo scorreva in flussi circolari sempre più ampi. Non avevo ancora mai sentito parlare dell’eterno ritorno – caro agli stoici, ripreso da Nietzsche, e poi postulato persino in una controversa e azzardata teoria di fisica quantistica – ma in seguito trovai impressionanti analogie tra quelle concezioni filosofiche e l’avventura psichica che stavo vivendo. Non solo l’LSD poteva spalancare l’accesso all’inconscio individuale, ma anche a quello collettivo, agli archetipi più remoti comuni a tutta l’umanità.

In un primo momento avevo creduto di essere diventato invisibile, ma poi mi ero serenamente rassegnato all’idea di essere morto, trascinato nel corso dell’Eternità. Ciò che effettivamente muore durante un viaggio acido è l’Ego. Io non avevo mai raggiunto prima un tale stato di sospensione profonda, e così la spiegazione più sensata in quel momento mi sembrava quella di un inopinato trapasso. Eppure, benché defunto, vivevo e rivivevo intere esistenze in volute a spirale la cui espansione progressiva avveniva ogni volta che ricadevo in quelli che mi apparivano come errori: man mano che i cerchi si allargavano mi sbarazzavo di convinzioni, preconcetti, pregiudizi e idee radicate.

Visitai atolli verde smeraldo, strade di periferia e giardini sterminati, mi addentrai nel bosco dove prima era apparso Buddha, raggiunsi la fine dell’orizzonte, dove scorsi in lontananza una città di cupole e minareti sui quali lampeggiavano neon rossi. Infine tornai sulla spiaggia, solo per scoprire che in realtà non mi ero mai mosso dallo scoglio dove ero seduto insieme al mio amico. Gli effetti a poco a poco si attenuarono e alcune gocce di pioggia annunciarono l’arrivo del mattino.

Negli anni successivi intrapresi altre escursioni non guidate oltre le frontiere della coscienza. In qualche caso tenni dei diari di bordo e acquisii maggiore pratica nel pilotaggio di quella singolare macchina del tempo. L’LSD non è infatti adatto a viaggiare nel passato o nel futuro ma permette di scendere profondamente nel presente, una delle dimensioni ancora più misteriose e inesplorate.

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