La meraviglia e il paradosso: il “Deserto dei Tartari” a teatro

di Eleonora Zeper

 

Doppia sfida, doppio paradosso. La prima sfida è portare a teatro il capolavoro di Dino Buzzati, il suo libro più importante e da lui più amato, confrontarsi non solo con il testo del 1940, ma anche con la trasposizione cinematografica che ne fece il grande Valerio Zurlini nel 1976 e che annovera nel suo cast attori quali Vittorio Gassmann, Philip Noiret, Max von Sydow e Jean-Louis Trintignant.

La seconda sfida è inerente al testo stesso: Paolo Valerio ha voluto infatti portare a teatro – luogo dove l’atto prende forma – un libro che ha l’inazione come suo primo tema, dove sono l’attesa e i suoi vuoti a farla da protagonisti. Il testo tratta infatti dell’esperienza di vita del tenente Giovanni Drogo, trasferitosi in giovane età in una fortezza militare posta ai piedi di un vasto deserto. Il desiderio di compiere l’impresa della vita, misto a quella sorta di pigrizia sognante su cui si basa la vita militare in tempo di pace, portano Drogo a rinunciare all’idea di chiedere il trasferimento dopo qualche mese. E così i giorni si fanno mesi, i mesi anni e gli anni una vita intera. Ma alla fine il nemico arriva, come la morte. Giovanni Drogo, infatti, vecchio e malato, non può far altro che guardare gli altri, i giovani, prepararsi a una battaglia sognata per un’intera esistenza; un finale amaro, ammorbidito solo in parte da una nota di serena accettazione da parte del protagonista.

Gli onirici disegni dello stesso Buzzati vengono proiettati sulla sfondo, accompagnati talvolta da un uso equilibrato ed evocativo della musica, mentre gli attori si aggirano per una scenografia scarna, come è giusto che sia per uno spettacolo nel quale il tempo è al centro e lo spazio è un deserto. Il testo di Buzzati, recitato di quando in quando da uno degli attori, scorre sullo sfondo assieme ai disegni. La scelta è discutibile, ma ha il merito di far conoscere allo spettatore la forza delle parole dello stesso Buzzati.

Paolo Valerio azzarda poi una mossa concettuale che si dimostra, a livello teorico, perfettamente coerente con lo spirito dell’opera; Giovanni Drogo non è infatti impersonato da un unico attore, ma ognuno, a turno, ne impersona una fase della vita. Tutti gli attori sono Drogo perché lo sono tutti gli uomini: vittime del tempo, paralizzati dai suoi vuoti e infine orfani di quell’atto che li farebbe eroi. Così, però, solo a livello teorico. Il punto debole dello spettacolo è, infatti, proprio la compagnia (Teatro Stabile del Veneto), gli attori più giovani non sono neanche lontanamente a livello dei più maturi. Al loro apparire sulla scena nei panni di Drogo se ne ricava infatti un certo senso di disagio che annienta la forza del personaggio.

La prima sfida è dunque in parte persa, lo spettacolo cede per via dell’interpretazione di alcuni, ed è un gran peccato. La seconda sfida, invece, è vinta. Il paradosso si invera, musica e scene rendono magistralmente il tempo dell’attesa consegnando allo spettatore un dolce stupore di fronte al nulla che prende forma.

Lo spettacolo è andato in scena al Teatro Rossetti di Trieste dall’11 al 15 gennaio.

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