di Luca Paci*
Action30 è un collettivo composito: grafici, film-maker, musicisti, fumettisti, giornalisti e studiosi di varie discipline che si prefiggono di intercettare le nuove forme di razzismo e fascismo usando gli anni ’30 del secolo scorso come lente d’ingrandimento. La macchina analogica messa a punto dal collettivo permette di accostare elementi apparentemente eterogenei e disparati per coglierne le similarità e le differenze. Grazie ad essa Action30 ha creato molteplici incursioni che si articolano in vari formati culturali tra cui libri, produzioni teatrali, cinema e happening. Il testo che segue è il risultato di una conversazione tra me e il filosofo Pierangelo Di Vittorio, co-fondatore di Action30 e redattore delle rivista aut aut, svoltasi nell’agosto 2018.
Ciò che mi affascina di Action30 è l’enfasi sulle pratiche, accostata alle riflessioni teoriche. E poi come le riflessioni teoriche a loro volta si allaccino di nuovo alle pratiche in una sorta di tensione costante. Raccontami come è cominciato tutto e cos’è Action30.
Il nostro collettivo nasce con un profilo etico-politico molto pronunciato: siamo nel periodo successivo all’11 settembre, con tutta l’ondata securitaria che seguì l’attentato alle Twin Towers, pensiamo in Italia alla legge Bossi-Fini, alle ronde delle camicie verdi, a tutto un clima sociale che ci fece fare l’ipotesi di una “strana riedizione” degli anni 30 e costituire il nostro collettivo come una sorta di osservatorio sulle nuove forme di razzismo e di fascismo. Il nostro è un osservatorio “performativo”: non ci limitiamo a osservare, a descrivere le cose dall’esterno, ma ci implichiamo nella realtà provando a trasformarla e a trasformarci con essa. Poi però cerchiamo sempre di riflettere sulle nostre pratiche, per coglierne le spinte deterriorializzanti e modificarle strada facendo, cioè mentre le pratichiamo. Non sempre è facile esistere nel supermercato della cultura. Noi, per fortuna o per sfortuna, siamo riusciti a non farci divorare dalle luci e ci siamo mantenuti abbastanza nell’underground. Forse perché le cose che facciamo sono sempre molto interstiziali, fuori formato e fuori circuito, e alla fine ottieni quello che semini.
Spiegami cosa intendi con la polarizzazione tra mainstream e underground.
Il problema è il degrado della ricerca, a partire se vuoi dai suoi aspetti meno addomesticati, più selvatici, pulsionali. Per affrontare questo problema bisognerebbe sviluppare appunto una riflessione, anche di carattere politico, sul rapporto tra mainstream e underground. Un rapporto, una lotta che ora intravedo con maggiore evidenza, ma che in realtà ha una lunga storia. Pensiamo ai rapporti tra la musica afroamericana, dal bebop all’hip hop per intenderci, e la cultura ufficiale: tutto un gioco complesso, e molto ambiguo, di contestazioni, recuperi, compromessi e nuove forme di resistenza e contestazione. Tutto un gioco di fughe, catture e nuove fughe. Svolgendo in questi ultimi tempi una ricerca su Kerouac e la beat generation, che in fondo è uno dei primi fenomeni culturali globali della storia contemporanea, ho fatto una scoperta abbastanza agghiacciante. Kerouac comincia i suoi viaggi da una costa all’altra degli Stati Uniti nel 1947; nel 1948 si mette a scrivere il suo romanzo e, a quanto pare, la prima versione vedrà la luce in poco meno di un mese, mentre On the Road sarà pubblicato solo nel 1957. Questo vuol dire che Kerouac passerà circa dieci anni, prima a trovare un editore, poi, dopo svariati rifiuti, a lottare con il suo editor che gli faceva pressioni per rimaneggiare il manoscritto. Ora la cosa folgorante è questa: appena esce, nel 1957, On the Road è già un classico! Insomma non solo è un best seller, ma tutto è pronto perché diventi immediatamente il manifesto di un fenomeno culturale di massa. A New York, tanto per dirne una, a un certo punto si poteva letteralmente affittare un beatnik per dare alle feste borghesi un sapore trasgressivo e alla moda. Potete immaginare l’orrore di Kerouac: il successo e la fama vissuti come un estremo fallimento personale, perché tra la “sua” beat generation, e quella trasformata in prodotto commerciale, ci passava un abisso! Mi vengono i brividi ogni volta che ci penso: è come se l’industria culturale avesse tenuto per dieci anni il romanzo in uno stato di latenza, per poi scongelarlo nel preciso momento in cui, sul quadrante di un orologio invisibile, scoccava l’ora X. Sincronismo perfetto. Agghiacciante, secondo me. Ebbene, la storia di On the Road mi è sembrata un momento inaugurale del cosiddetto mainstream. Si tratta di una grande performance, se vuoi, il prodursi di un timing perfetto nella sua stessa violenza: infatti, nel momento stesso in cui la beat generation emerge come fenomeno mainstream, essa tende a eclissarsi come fenomeno underground. Nonostante tutte le ambivalenze rispetto a un successo e a una sicurezza economica da sempre ricercati, Kerouac paragonerà l’effetto della pubblicazione di On the Road al fungo della bomba atomica! Qualcosa di devastante insomma, sia sul piano personale sia sul piano culturale, contro cui lotterà disperatamente fino alla fine dei suoi giorni. Tutta questa parentesi su Kerouac, solo per dire che forse dovremmo cominciare a rileggere, almeno in parte, la storia novecentesca, affiancando allo schema della lotta di classe quello della lotta tra underground e mainstream, magari mutuando da Deleuze e Guattari le nozioni di “maggiore” e “minore”, per dare un po’ più di pregnanza a queste due categorie un po’ banalizzate. Credo che qui si giochi una partita tanto decisiva quanto trascurata, per non dire misconosciuta. Pensiamo a quello che succedeva quando vigeva lo schema della lotta di classe: appena mettevi piede in fabbrica, sapevi che qualsiasi gesto – una chiave spostata, un bullone avvitato oppure lasciato cadere per terra, ecc. – avrebbe avuto una precisa implicazione etica e politica. Cioè non facevi nessun gesto a cuor leggero, in modo per così dire naïf. Ricordo un’intervista nella Miseria del mondo di Bourdieu: un operaio, vecchio militante sindacalista, non riusciva a riaversi dallo shock di vedere i colleghi più giovani sfoggiare nel paese la giacca con il logo Peugeot, mentre prima lui e gli altri compagni non vedevano l’ora di togliersela di dosso! Oggi si passa invece dall’underground al mainstream come se nulla fosse, dalla sera alla mattina. Si cambia casacca come se nulla fosse, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Invece no, cambia tutto! E rispetto ai tempi in cui s’interpretava la vita quotidiana in termini di lotta di classe, mi sembra che oggi non ci sia la stessa attenzione, lo stesso rigore nel mantenere una linea che è sì culturale, ma anche e indissociabilmente etica e politica. Mi sembra che oggi non ci sia la consapevolezza che c’era una volta rispetto alla possibilità di situarsi, nella società e nella storia, in maniera diversa, con un atteggiamento alternativo o antagonistico. Salvo rispolverare lo schema tradizionale della lotta di classe… Mi sembra invece che sia proprio rispetto al mainstream che si giochino oggi le partite più importanti e attuali. Il mainstream si presenta come un ibrido molto potente, un “indecidibile”, se vuoi, difficile da contrastare: esso è, infatti, sia il punto estremo del lungo processo di democratizzazione delle società occidentali, sia l’ultima faccia del fascismo, quello che Pasolini chiamava genocidio culturale. Un genocidio che è in primo luogo distruzione di tempi di vita diversi…
A proposito di mainstream e di come esso cerchi di cannibalizzare ogni pratica alternativa, qui in Gran Bretagna nelle università c’è un’enfasi sull’impact research. La ricerca accademica non è valutata soltanto in relazione al sistema d’istruzione ma anche rispetto all’impatto che essa produce nella comunità o società in cui essa opera. Questo atteggiamento può anche essere letto come il tentativo estremo dell’università di salvare la faccia, fondamentalmente. Sai che adesso qui ci sono delle cifre assurde per quanto riguarda i costi universitari. I nostri studenti pagano 9000 sterline all’anno. Gli studenti non europei invece pagano anche 14000 sterline all’anno per fare un anno di corso. E c’è questa specie di lacrima di coccodrillo che dice: adesso il ricercatore deve in qualche modo avere un contatto con la comunità in cui vive e quindi c’è un ripensamento secondo me di facciata e molto funzionale a questo capitalismo selvaggio che è entrato proprio nell’università che mira a fagocitare esperienze che vengono dalla comunità per cercare di far vedere che comunque si fa qualcosa che ha poi un impatto.
Sembrano le lacrime di coccodrillo di una certa sinistra che, in Italia, dopo la sconfitta elettorale del 4 marzo, ha cominciato a dire “bisogna tornare nei territori!”. Per carità, nulla in contrario. Anzi. Tuttavia, dopo un disastro di simili proporzioni, non solo è riduttivo porre il problema in questi termini, ma può servire persino da alibi per non affrontare i problemi fino in fondo. In primo luogo il progressivo scollamento delle classi dirigenti: è come se negli ultimi decenni, e in parallelo con l’avvento del neoliberalismo, si fosse imposta nella sinistra una sorta di “antropologia del quadro”, in qualche modo complementare a quella dell’uomo-manager di stampo neoliberale. Come se, in un mondo di dirigenti, essere di sinistra equivalesse in fondo a essere i “buoni” dirigenti: i dirigenti illuminati, progressisti, paladini della legalità, dei diritti dell’uomo ecc. Tutto ciò a scapito di quella dimensione pulsionale cui accennavo prima e che, infatti, una certa sinistra continua a squalificare come l’ignobile “pancia” del popolo contrapposta alla nobile “testa” che dovrebbe guidarlo. Vedi, sembra abbastanza chiaro come la questione di riprendere contatto con i territori riveli e al tempo stesso nasconda la vera natura del problema…
Io sono basito, non so come spiegare alle mie figlie che cosa sta succedendo non solo in Italia ma nel mondo. Trump che divide genitori e bambini, Salvini… Anche qui Theresa May, quando era ministro dell’interno nel 2012, creò l’hostile envinroment, il cui scopo era rendere la vita degli immigrati impossibile, in modo da respingere gli indesiderati e scoraggiare futuri arrivi. La società civile era chiamata attivamente a denunciare i sospetti immigrati irregolari.
Oggi i prodotti politici che si vendono meglio sono la paranoia e il grottesco. Prendo le cose un po’ alla lontana, ma forse è necessario. L’errore a mio avviso è affrettarsi a considerare le vie di fuga, o gli indecidibili, se preferisci, che nascono nello spazio informe del “né…né”, come qualcosa d’immediatamente e intrinsecamente rivoluzionario, o che esprime comunque una forza di resistenza, una certa irriducibilità rispetto ai dispositivi sistemici di potere-sapere. Pensiamo appunto al né destra né sinistra che accomuna oggi una serie di progetti di governo, da Trump a Macron al M5S, e che secondo me è il vero elemento strutturale di “seduzione” presente in tali progetti. Ebbene, in questo spazio informe del né destra né sinistra, sono nati dei progetti politici che, lungi dal rimettere in discussione o dal “far fuggire” il sistema come direbbe Deleuze, aprendo una vera partita di carattere etico e politico, hanno riformato il sistema stesso. Lo hanno modernizzato attraverso un dispositivo ibrido che ha liberato un eccesso di potere “governamentale”, cioè di gestione degli uomini in deroga ai principi che dovrebbero limitare l’esercizio del governo nelle società liberali e democratiche. Né destra né sinistra serve oggi a emanciparsi programmaticamente da ogni limite, legittimandosi a poter dire e fare tutto e il contrario di tutto. Su questo esercizio illimitato del potere oggi si chiede fondamentalmente il consenso della gente. E purtroppo spesso lo si ottiene, nel senso che alla fine chi si presenta con questo tipo di programma di “trasgressione programmatica”, scusa il gioco di parole, rischia di vincere le elezioni. Il vero problema oggi mi sembra questo: ci piace l’eccesso di potere, cerchiamo il grottesco – così come cerchiamo la paranoia, l’altro prodotto che oggi si vende molto bene, purtroppo. Il vero problema è che abbiamo cominciato a desiderare il potere infame o ubuesco, come lo chiama Foucault negli Anormali, e questo vuol dire che siamo già in una seduzione di tipo “fascista”, se vuoi. Quindi lo spazio informe del né…né non basta di per sé a garantire l’apertura di un possibile che sia una situazione dove ci si gioca davvero qualcosa, dove si apre una partita nella quale è chiamata in causa e messa radicalmente alla prova la nostra la stoffa etica e politica. Quindi lo spazio informe del né…né non basta di per sé a garantire l’apertura di un possibile che sia una situazione dove ci si gioca davvero qualcosa, dove si apre una partita nella quale è chiamata in causa e messa radicalmente alla prova la nostra la stoffa etica e politica. Quando abbiamo costituito il collettivo, sentivamo che destra e sinistra non erano più le coordinate all’interno delle quali poteva configurarsi una simile partita. Ci siamo quindi avventurati nello spazio informe del né…né, alla ricerca di quel “taglio” etico-politico che le coordinate destra/sinistra, da sole, non sembravano più garantire. Sentivamo che quel taglio, quella frontiera, quella ferita passava altrove, e che per qualificare in senso etico e politico la nostra forma di vita non bastava più dirsi semplicemente di sinistra. Insomma il taglio andava rigiocato, ed è quello che alla fine abbiamo rappresentato attraverso le figure pop, create con Giuseppe Palumbo, di Icaro, l’ultimo dei supereroi che si proietta sempre verso i piani alti, i soli, i cieli e i grattacieli, e Fra’ Casseur, l’uomo talpa, una sorta di asceta lumpen, di sottoproletario che abita invece nei sotterranei della società, che si aggira nelle cloache della storia… Che poi, pensandoci, è un po’ lo stesso taglio etico-politico che oggi credo potremmo far passare tra mainistream e underground, previa una ridefinizione di queste due categorie ormai abusate, magari anche attraverso un lavoro di tipo genealogico.
Il lavoro che avete fatto in Bazar elettrico recuperando e sceneggiando a fumetti la disputa tra Bataille e Breton è dunque un modo per rilanciare una riflessione autocritica su cosa possa significare ancora, oggi, essere “di sinistra…
Esatto. Il riferimento a Bataille, in particolare al Bataille della rivista “Documents”, è stato per noi immediato, primordiale: a cavallo tra gli anni 20 e 30, cioè in una fase storica delicatissima, con il fascismo alle porte, Bataille si rende conto che dirsi materialisti non basta. Per aprire una scommessa radicale sull’uomo, di carattere al tempo stesso etico e politico, cioè soggettivo e collettivo, bisognava operare un taglio supplementare. Si tratta precisamente di quel “basso materialismo” che lui oppone al “surrealismo”, considerato invece come una sorta di materialismo sublimato, idealistico. Insomma, non basta il taglio destra/sinistra, ma bisogna aggiungere il taglio alto/basso: per mettere in gioco l’uomo – ed è proprio quando il fascismo incalza che l’uomo va messo in gioco, alla radice – è necessario aprire una vertenza, di carattere antropologico appunto, tra quello che nell’uomo è considerato alto e nobile, e quello che è invece considerato basso e infetto. Guardate che possiamo squalificare quanto vogliamo gli orribili, ottusi, informi piedi, scrive Bataille in un testo del 1929 che fece scalpore. Resta che i piedi possono esercitare una forza di seduzione pari o magari, in certi casi, persino maggiore di quella dei magnifici occhi azzurri, simbolo dell’elevazione e dell’intelligenza umane… Ebbene vogliamo lasciare queste basse armi di seduzione ai fascisti? E poi perché pensiamo che i piedi, con tutta l’umana bassezza che rappresentano, non siano una posta in gioco, mentre lo sarebbero solo gli aspetti elevati? Forse perché riteniamo che tutta questa bassezza non corrisponda all’uomo ideale che abbiamo in testa, che sia insomma solo un resto, un residuo fastidioso? Ma questo modo di vedere le cose non è una proiezione del proprio essere “teste”, cioè capi, quadri, élite, classi dirigenti? Insomma, a furia di identificarsi con la propria testa, con la propria razionalità illuminata, a scapito di tutto quello che è basso e oscuro, si finisce per fondare una visione dell’uomo in generale: l’antropologia dell’uomo-dirigente. Allora è sufficiente che questa proiezione antropologica arrivi da sinistra per farci sentire al sicuro e salvi? La sinistra delle idee buone e giuste contro la destra della sragione? I buoni dirigenti di sinistra contro i manager squali di destra? E siamo sicuri che alla fine questo schema risulti vincente? Ebbene, sono un po’ queste le domande, mutuate da Bataille, che abbiamo trovato pertinenti e provato quindi a riattivare nella situazione che stavamo vivendo in Italia intorno alla metà degli anni 2000. Cioè, attenzione, prima della crisi economica, cui oggi diamo tutta la colpa del ritorno del fascismo, come si dice sempre più spesso, semplificando, secondo me, banalizzando… Eh sì, certo, ci piace semplificare le cose, usando gli schemi familiari, scolastici, anche se ci portano fuori strada, anche se ci allontanano dalla realtà, cioè dall’attualità, che è sempre portatrice di qualcosa di diverso rispetto a quello che potremmo aspettarci. Fatto sta che ora si sente dire, sì, le lacrime di coccodrillo: “Non abbiamo ascoltato la pancia degli Italiani”. Ma non ci vuole molto a capire l’ipocrisia di tale affermazione, che in realtà è ancora una squalificazione dell’ignobile pancia, al cospetto della nobile testa, e quindi un estremo tentativo di autoassoluzione. Insomma, è come se si dicesse: “Gli Italiani sono andati di corpo, poveracci, e ora toccherà a noi ripulire!”. E infatti – controprova – qual è il rimedio proposto? Come si enuncia la medicina per la sinistra malata? “Dobbiamo tornare nei territori!”. Grottesco. Vedo D’Alema di fronte a Berlusconi e sembra che non sia cambiato nulla. Insomma, quasi, visto che nel frattempo la sinistra parlamentare è scomparsa dalla carta geografica. Ma soprattutto che le pulsioni calde – l’orgia al governo di berlusconiana memoria – hanno lasciato sul campo quelle freddamente igieniste dei vecchi alleati della Lega Nord… Ricordo sempre quel passaggio in cui Foucault dice che alla base del nazismo non c’era nulla di erotico, bensì l’infetto sogno piccolo-borghese della pulizia razziale. Il nazismo è un impulso da addetti alle pulizie: armati di strofinacci e scope, i crociati dell’igienismo sociale desiderano solo purgare la società di tutto quello che è considerato come materiale di scarto, rifiuto tossico, e cioè omosessuali, ebrei, neri, folli ecc. E quando le pulsioni diventano fredde e asettiche come la lama di un bisturi, ormai c’è poco da discutere… Insomma, aver disertato il terreno pulsionale, lasciando che fosse investito da vecchie e nuove dinamiche razziste e fasciste, è secondo me la responsabilità storica delle classi dirigenti di sinistra negli ultimi decenni. E quando parlo di classi dirigenti di sinistra, non mi riferisco allo stretto ambito politico, che va preso semmai come una sorta di teatrino sintomatico, ma a tutti gli ambiti della vita sociale, cioè della cultura reale, diffusa, quotidiana.
*Luca Paci è Lecturer all’Università di Swansea in Galles dove insegna Italian studies, letteratura italiana contemporanea e traduzione. Co-dirige l’Italian Cultural Centre Wales ed è direttore artistico dell’Italian Film Festival Cardiff. Sta lavorando a un volume dal titolo Resisting Italy, composto da interviste a intellettuali, registi, poeti e altre voci della contemporaneità italiana.