di Giuseppe Nava
Anni fa, mi capitò per caso di vedere alla tv le riprese di uno spettacolo teatrale. Un solo attore, vestito di nero, seduto su una sedia, senza altri oggetti di scena, che raccontava una storia di cavalieri, principi e imperatori. Non seppi mai quale opera fosse – avevo iniziato a vederla che era già cominciata – e anche della storia ci capii poco, ma mi rimase fortemente impressa la scena finale: il protagonista che, prima di essere messo a morte, ingoia un pezzo di carta (immaginario) che pure gli avrebbe dato la salvezza.
Giorni fa, mi capita per caso fra le mani un libro di racconti di Heinrich von Kleist, scrittore del romanticismo tedesco. In particolare c’è un lungo racconto che mi prende parecchio, Michele Kohlaas. Lo divoro, e in breve arrivo al finale. Che è identico a quello dell’opera teatrale vista tanti anni fa. Bum. Epifania. Faccio qualche rapida ricerca, e scopro che sì, si trattava di un adattamento a monologo del racconto di Kleist, ad opera dell’attore e regista piemontese Marco Baliani.
La storia (mi soffermo qui sul racconto) è quella di Michele Kohlaas, mercante di cavalli nella Germania feudale del 1500. Nel tragitto verso Dresda, dove porta a vendere i suoi cavalli migliori, viene fermato presso il castello del barone von Tronka con il pretesto di un lasciapassare. Kohlhaas non ha alcun documento di questo tipo, e decide di lasciare in pegno al barone due morelli – cavalli pregiati, da parata – che recupererà al suo ritorno. Ma a Dresda gli dicono che non esiste alcun lasciapassare; e tornando al castello, scopre che i cavalli sono ridotti in fin di vita (sono stati usati per il lavoro nei campi) e il servo Ersiano, che aveva lasciato a custodire le bestie, è stato malmenato, derubato e scacciato.
Kohlhaas si rivolge dunque alle autorità, per riavere i cavalli in salute, come li aveva lasciati, e un indennizzo per i danni subiti dal servo, che egli quantifica diligentemente, da buon mercante. Nulla di più e nulla di meno. Ma il destino vuole che von Tronka sia parente di nobili molto vicini al principe Elettore di Sassonia, e nonostante i solleciti e le ripetute richieste, il caso di Kohlhaas viene puntualmente rigettato come «bega oziosa». Col passare del tempo la fiducia del mercante nella giustizia vacilla sempre più. Kohlhaas vede il perfetto ordine del suo mondo (e del cuo cuore, aggiunge Kleist) violato e distrutto, e quando perde la moglie per un incidente legato alla vicenda, allora decide di farsi giustizia da solo: raduna alcuni servi fidati e comincia a dare la caccia al barone, mettendo a ferro e fuoco una città dopo l’altra, con un seguito sempre maggiore. Finché il suo caso non diventa una questione che coinvolge prìncipi, l’imperatore, e persino Martin Lutero.
Quello della vittima di soprusi che esce dalla legalità per farsi giustizia è quasi un archetipo dell’immaginazione, che passa per Robin Hood e il conte di Montecristo fino ad arrivare a innumerevoli film (basti come esempio il monolitico Charles Bronson ne Il giustiziere della notte). Ci sentiamo sempre coinvolti da queste reazioni. Comprendiamo, partecipiamo della frustrazione e condividiamo la rabbia. Ci indignamo per la vile trappola tesa all’innocente Edmond Dantés, tifiamo per William Wallace che scatena la rivolta contro l’oppressore inglese. Ma Kohlhaas? L’ossessiva insistenza del mercante tedesco ha sfumature del tutto particolari. Non è solo il gusto della vendetta che lo spinge alla reazione violenta, ma in primis un sentimento più sottile. Kleist ci dice che «il suo senso di giustizia […] era come la bilancia dell’orafo». Kohlhaas crede fermamente nella legge, e interpreta la prevaricazione come una sua “espulsione” dal consesso sociale, sentendosi quindi autorizzato ad agire come meglio crede: «Ripudiato chiamo colui al quale si nega la protezione delle leggi! Poiché di questa protezione, per la prosperità del mio pacifico commercio, io ho bisogno; ed è, anzi, proprio per questo che io, con tutto ciò che mi sono guadagnato, cerco rifugio nella comunità; e chi me la nega mi ricaccia fra i selvaggi del deserto, e mi mette in mano, potete forse negarlo?, la clava che mi protegge». Quello che conta non è la misura del torto subito – quanti gli dicono di lasciar perdere, di accontentarsi di un risarcimento in denaro – ma il principio. Tanto che la morte della moglie è soltanto la classica goccia, e nella sua disumana onestà, di questa morte non reclamerà mai vendetta. Tutto ciò che egli pretende dalla legge è «La punizione del barone, conforme alla legge […] il ristabilimento dei cavalli nello stato in cui erano; e il risarcimento del danno che tanto io quanto il mio servo Ersiano […] abbiamo subìto, a causa della violenza commessa contro di noi». Nulla di più, nulla di meno.
Kleist racconta l’assurdità della burocrazia e delle leggi umane dipingendola attraverso l’efficace corrispettivo del caotico mondo feudale. La “questione Kohlhaas” coinvolge baroni, ciambellani, gran cancellieri, prìncipi; ognuno con un’idea diversa, a seconda del coinvolgimento, dell’onestà, della convenienza politica o personale. Il caso passa di mano in mano, viene approvato, viene rigettato, si inventano sotterfugi, si concedono amnistie, in un labirinto schizofrenico, arbitrario e imprevedibile. Le pagine in cui le varie “autorità” discutono sulle misure da prendere nei confronti del mercante rappresentano perfettamente – complice la prosa tortuosa di Kleist, che abbonda di incisi e subordinate – l’involuzione di un sistema che si pretende perfetto e universale. Non stupisce che Kafka adorasse questo racconto, prendendone ispirazione per il suo Processo, e non si può non notarne la sconcertante attualità celata dietro i modi del racconto storico.
Kohlhaas accetterà un’amnistia, con la promessa di una risoluzione del suo caso, mentre i suoi nemici – in testa il principe Elettore di Sassonia – porteranno la questione davanti all’imperatore, che non essendo vincolato all’amnistia potrà giudicare (e punire) il mercante per i crimini commessi durante la sua ribellione. Kohlhaas viene quindi condannato a morte, e nel giorno stesso della sua esecuzione, sulla piazza dove è già montato il patibolo, gli vengono portati i due cavalli, curati e ingrassati a spese del barone, e il risarcimento per il servo. Il torto subìto è stato riparato, e il mercante può accettare la condanna della legge nel cui ambito è ritornato. Ognuno ha quindi la sua soddisfazione, i piatti della bilancia della giustizia tornano a equilibrarsi, l’ordine della ragione e dei sentimenti di Kohlhaas torna a quella forma perfetta in cui aveva sempre creduto. Una forma di cerchio, come dice Baliani nel monologo teatrale, identificandola con il cappio che si staglia contro il cielo (nel racconto gli viene invece tagliata la testa).
La ribellione di Kohlhaas non è ideologica, ma è spinta dal fatto privato, dalla pretesa di «protezione» per il suo «pacifico commercio». Non vuole ribaltare lo stato, per lui resta sempre una questione di cavalli e di servi malmenati; eppure la sua rivolta nasce dalla contradditorietà del mondo stesso, e quelle parole le rivolge a Lutero in persona (che poi si rivolgerà al principe, e il principe all’imperatore), non rendendosi conto che nessuna azione come la sua può dirsi scevra dall’avere un effetto anche politico. Nemmeno quella rivincita finale che riesce a prendersi nei confronti dell’odiato principe di Sassonia, che tanto si era accanito contro di lui: il nobile è disposto a salvargli la vita pur di avere un piccolo foglio (una lunga digressione ci racconta come questo sia giunto a Kohlhaas), ma il mercante di cavalli, con un gesto altamente simbolico, ingoia il foglietto poco prima dell’esecuzione. Salvando così il suo onore e la sua memoria da un lato, e dall’altro compromettendo il futuro della casata del nobile.
(Il monologo di Baliani ispirato a questo racconto è giunto nel 2012 alla millesima replica, una delle quali è visibile su youtube. L’attore continua a portarlo in scena, se mai dovesse capitare da queste parti consiglio vivamente di andare a vederlo, merita davvero)