Intervista a Giacomo Bonetti, ex operatore sociale dell’Italian consortium of solidarity che ha seguito Mohammed Gul, durante la sua permanenza nel centro di accoglienza per rifugiati politici di Trieste, fino al suo tragico suicidio.
di Andrea Muni
Questa intervista è stata registrata a pochi giorni dagli eventi che poco più di tre mesi fa hanno scosso (per non più di 48 ore) la imperturbabile città di Trieste. Un rifugiato politico afghano, Mohammed Gul, ha rubato la pistola ad un poliziotto davanti alla questura, cercando di sparare alcuni colpi a casaccio togliendosi poi tragicamente la vita.
La rubrica di (in)attualità è stata pensata anche per non dimenticare, dopo il clamore che sempre esercitano i sensazionalismi dei giornali, gli aspetti più spigolosi e spiacevoli della nostra attualità. Quello che è successo solo pochi mesi fa a Trieste poteva essere qualcosa che avremmo ricordato nei decenni, se solo le cose fossero andate “meno bene” e dei cittadini inermi fossero rimasti uccisi. Mentre ciò che effettivamente è accaduto è stato “soltanto” il tragico suicidio di un rifugiato politico di 21 anni richiedente asilo.
Sono convinto che esista un modo per ricordare questa triste vicenda senza ricorrere ad un facile buonismo, e senza profondersi in esercizi di stile, moralismi o slanci ideologici. Credo che ricordare questa vicenda possa avere un’utilità pratica e tutt’altro che retorica.
Nella certezza che non se ne sarebbe più parlato, dopo i primi clamori, ho tenuto in serbo questa intervista per ricordare – a freddo – la vita “infame” di Mohammed Gul (vita riassunta dai giornali, cartacei e online, col più classico dei: “Immigrato con permesso di soggiorno scaduto, impazzisce e tenta la strage, poi si ammazza”). [1]
Questa breve intervista è stata concepita anche per rammentare a tutti il grande pericolo a cui una città (e una società) si autoespongono, quando lasciano cadere inascoltate le richieste di aiuto che le provengono dagli angoli più bui delle sue strade: sia da quegli uomini “infami” la cui vita sarà sintetizzata dai giornali in un brutale epitaffio di cinque crudeli parole, sia da quegli uomini altrettanto “infami” che sono i volontari che cercano di dare voce, e protezione, al loro dolore.
Gli “infami” sono tutti coloro che, non scrivendo la storia, sono destinati ad essere cancellati da chi la fa, quotidianamente e freddamente, con poche semplici parole che suonano come pesanti lapidi gettate sull’ultimo respiro di una vita umana ancora tiepida. Mentre scrivo questa piccola introduzione, e nel proporre questa breve intervista, vorrei mettermi anch’io su questo carro dei non-vincitori. E nel farlo vorrei lanciare un ammonimento, grave ma non violento… forse un giorno saremo noi, “infami”, a scrivere quelle cinque parole a proposito dei loro cadaveri.
Qual era il tuo ruolo all’interno dell’Ics (Italian consortium of solidarity, ufficio rifugiati onlus)?
Sono stato tirocinante, dopo la laurea in psicologia, perché per fare l’esame di stato è necessario un periodo di tirocinio attivo della durata di un anno. Ho scelto il centro rifugiati politici perché ero interessato a uno scambio con culture diverse, un’esperienza che mi ha sempre affascinato e che devo dire, nel bene e nel male, mi ha effettivamente dato tanto. Mi premeva confrontarmi con un’alterità culturale radicale: i rifugiati politici presenti a Trieste sono quasi tutti afghani e pakistani ed ero incuriosito da una cultura di cui si conosce così poco. Nel centro ero seguito da un tutor e svolgevo compiti di assistenza generica (ascolto di problemi, mediazione tra l’Ics e le istituzioni), con una particolare delega all’insegnamento dell’italiano. Per i richiedenti asilo, a Trieste, esistono ufficialmente solo settanta posti letto, ma durante questo inverno l’esplosione di arrivi ha costretto le istituzioni, per tramite dell’Ics, a mettere a disposizione ulteriori alloggi di emergenza: uno di questi luoghi d’emergenza allestiti durante l’inverno, a causa dell’emergenza freddo, è stato il campo scout di Campo Sacro, vicino a Prosecco, dove si trovava rifugiato anche Mohammed Gul.
Quindi Gul si trovava rifugiato a Campo Sacro in qualità di richiedente asilo, dotato perciò di regolare permesso di soggiorno, ed era in attesa che il permesso gli venisse rinnovato. Che persona era lui? Sono note le circostanze per cui aveva richiesto asilo?
A tutti i ragazzi, quando arrivano, viene fornita un’assistenza sia umana che legale per raccontare la loro storia, ma noi operatori di regola non chiediamo loro esplicitamente di raccontarci le loro storie, di questo si occupano generalmente altri colleghi. Inoltre sussiste un problema di barriera linguistica per cui raccontare, ed in generale aprirsi raccontando gli orrori vissuti in patria, è praticamente impossibile, se non in contesti specifici. Non so se posso raccontare che persona era Mohammed Gul… avrei preferito che avesse ancora potuto farlo lui. Posso raccontare però un piccolo aneddoto riguardante il “mio” Mohammed Gul, solo una piccola immagine di quel niente che ho potuto conoscere di lui in quei pochi mesi. Un giorno, dopo le lezioni di italiano che tenevo per la classe di cui anche lui faceva parte, Mohammed stava videofonando con un bambino che credo fosse suo figlio, e ha insistito perché lo salutassi. Quando la barriera linguistica impedisce una normale comunicazione, a volte, i piccoli gesti assumono un valore empatico-comunicativo esorbitante. Di solito le ragioni delle richieste di asilo, specialmente per quel che riguarda i giovani della sua età (Mohammed aveva 21 anni e 2 figli), sono sempre connesse al dramma della guerra civile afghana innescata dall’invasione americana. Le storie dei rifugiati sono le “solite” storie sentite e risentite sui media, ma credimi che averci a che fare direttamente – seppur in maniera riflessa e magari senza potermi far raccontare tutto – è qualcosa che permette davvero di toccare con mano, nei più banali e quotidiani dei loro comportamenti, cosa significhi avere a che fare con persone che hanno perso tutto.
Quando ha iniziato Mohammed a manifestare i primi inequivocabili segni di squilibrio?
Io l’ho conosciuto a inizio novembre. I primi segni di squilibrio sono comparsi a inizio gennaio. Dopo alcune esplosioni di aggressività abbiamo immediatamente segnalato il suo disagio ai Servizi di salute mentale, che lo hanno ricevuto in osservazione svariate volte durante i suoi ultimi due mesi di vita.
Qual è stata stata la reazione delle istituzioni alle vostre segnalazioni?
Come detto Mohammed è stato visitato più volte in psichiatria, dove il suo disagio è stato attribuito a difficoltà di integrazione riconducibili a quel che si definisce abitualmente uno “shock culturale”. Per il Servizio sanitario non si trattava di un disagio psicologico o psichiatrico, ma di una difficoltà di adattamento. Il disagio però nel frattempo si era spinto nell’ultimo periodo (febbraio) fino al delirio, all’ideazione suicida, e ad un’intensificazione degli episodi di aggressività. Visitato ancora, anche dopo queste crisi più acute, la diagnosi dei Servizi è però rimasta inalterata: somministrazione di ansiolitico al bisogno, ma nessuna terapia regolare. C’è stata palesemente una divergenza tra la nostra percezione dell’intensificarsi del disagio di Mohammed e la diagnosi, rimasta inalterata, dei Servizi di salute mentale (nonostante l’evidente escalation di aggressività e autolesionismo che lo stava travolgendo). Io ho sempre avuto l’impressione che i gesti di Mohammed fossero una disperata ed intraducibile richiesta di aiuto, proprio in quanto manifestamente depressivi e francamente deliranti. Se fosse stato europeo, o per lo meno più europeizzato, forse avrebbe reagito diversamente, forse avrebbe trovato inconsciamente un modo più adatto per canalizzare il proprio dolore e manifestare il suo disturbo: i deliri di Mohammed avevano uno sfondo religioso, su cui si stagliavano gli episodi di aggressività, che rappresentava per lui l’unico appiglio per preservare un briciolo di identità, nonché l’unico viatico per sfogare la propria frustrazione. Altre volte altri ragazzi del centro, che avevano manifestato simili disturbi, avevano ottenuto una maggiore attenzione da parte dei Servizi (e la somministrazione di una seria e regolare terapia farmacologica e psichiatrica) proprio perché, trovandosi in Occidente da più tempo, erano riusciti a tradurre il loro disagio in gesti più marcatamente ed inequivocabilmente autolesionistici, gesti che nella nostra società sono abitualmente riconosciuti più facilmente come sintomi di una psicopatologia.
Certo che appare surreale che si prescrivano psicofarmaci a bambini turbolenti, o a piccolo borghesi annoiate e annoiati, e che invece si incontrino tante difficoltà per prescriverli ad una persona che versa in un palese stato di disagio umano, sociale ed emotivo. Riguardo alla barriera linguistica cui hai accennato, mi chiedevo invece se non esistessero delle figure permanenti di mediatori culturali che aiutino i rifugiati ad esprimersi e a spiegarsi, per lo meno nei momenti più delicati.
I mediatori esistono, ma sono pochi, vengono utilizzati solo per le emergenze. Non c’è lo spazio “logistico” per permettergli di esserci sempre. D’altra parte, cerano operatori presenti nel centro che parlavano il farsi e l’urdu, operatori che però non sono psicologi. Nella prima visita psichiatrica di Mohammed c’era l’interprete: durante questa prima visita Mohammed ha raccontato, in un lucido delirio, dei minacciosi parenti talebani, della guerra e del rumore delle bombe. In ogni caso il problema non è stato tanto la mancanza di mediazione: a mancare è stata piuttosto la volontà di ascoltare. Non tanto da parte dell’Ics, quanto da parte del Servizio psichiatrico.
Cosa hanno detto gli altri rifugiati di quello che è accaduto?
Ci chiedevano continuamente di fare qualcosa, abbiamo persino provato a contattare Roma per cercare di sbloccare la situazione, ma è stato tutto inutile. Si sono sentiti non ascoltati e non tutelati, e io mi sono sentito impotente. Abbiamo condiviso il dolore della sua tragica scomparsa e il senso di impotenza di fronte all’impossibilità di impedire una tragedia annunciata già da un paio di mesi, una tragedia che davvero abbiamo fatto tutto il possibile per prevenire, restando pressoché inascoltati.
Come si convive umanamente col fatto di trovarsi quotidianamente a contatto diretto con persone che versano in situazioni così estreme di disagio, di esilio e di dolore?
Per quel che mi riguarda, ho avuto la fortuna di avere un servizio di supervisione psicologica, messo a disposizione di tutti i tirocinanti, e ho avuto la fortuna di poter “socializzare” la perdita di Mohammed con gli altri ragazzi afghani e pakistani del centro. Senza queste due occasioni di confronto mi sarebbe stato molto più difficile fare i conti fino in fondo col fatto che quella dell’operatore sociale è veramente una professione dell’impotenza e del paradosso: una professione in cui sei contemporaneamente amico e guardiano, in cui sei qualcuno che vede e sa, ma la cui opinione conta solo relativamente quando si tratta di prendere decisioni importanti. Credo che offrire aiuto e supporto a queste persone, contenerne il dolore e rendere contemporaneamente alla società un silenzioso e spesso poco apprezzato servizio di prevenzione di annunciate tragedie della disperazione e della solitudine, sia qualcosa di necessario. Qualcosa che va fatto perché va fatto, non per moralismo né per buonismo, qualcosa che su entrambi i fronti – quello umanitario e quello della protezione sociale – rappresenta uno sforzo non indifferente per coniugare umanità e sicurezza, evitando i manganelli e la xenofobia, e cercando piuttosto di custodire quel poco di umanità che ci scivola via dalle dita, lentamente, giorno dopo giorno, rendendoci inavvertitamente sempre un po’ più piccolo borghesi del giorno prima. Fino al giorno in cui ci stupiamo e costerniamo di fronte di una tragedia annunciata che solo per una pura casualità non si è tradotta in una tragedia di ben più vaste proporzioni, una tragedia che la città di Trieste avrebbe certamente dimenticato meno facilmente del triste, “infame” e disperato suicidio di Mohammed Gul.
NOTE
[1] Fanno eccezione solo un breve articolo on-line de “il Piccolo”, di Gabriella Ziani, in cui si intervista il presidente del’Ics a proposito del destino della salma di Mohammed Gul, dimostrando almeno un briciolo di umanità. Cfr. anche l’articolo di Stefano Tieri su “el Kanal”, scritto a caldo, in cui l’autore invita a non strumentalizzare il .tragico suicidio di un giovane rifugiato di cui non si sapeva ancora praticamente niente, ma che nel dubbio era già stato ferocemente strumentalizzato da alcuni politici in chiave xenofoba.