di Diletta Coppi
Zona critica. Esercizi di futuro tra ecologia e tecnologia è l’ultimo libro di Marco Pacini, edito da Meltemi nel 2024.
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La Zona critica è la gola di Olduvai, in Tanzania dove ha lavorato Gail Ashley, geologa americana, ed è: “l’ambiente eterogeneo, vicino alla superficie, in cui complesse interazioni che coinvolgono roccia, suolo, acqua, aria e organismi viventi regolano l’habitat naturale e determinano la disponibilità di risorse a sostegno della vita” (p.8).
Ciò che distingue Pacini e rende il suo lavoro così chiaro è, a mio avviso, il pessimismo che lo ha sempre contraddistinto fin dai suoi primi lavori, basti pensare al titolo dell’opera che ha preceduto questa: Pensare la fine (Meltemi, 2022). La persona che prende in mano il libro e decide di leggerlo si trova immersa fin dalle prime pagine in quella che è la realtà dei fatti, forse un po’ già chiara a chi ha capito che non c’è più tempo. Non c’è più tempo per il clima, non c’è più tempo per gli esseri umani, non c’è più tempo per continuare a pensare alla vita su questo pianeta seguendo le logiche capitaliste e neoliberali che antepongono a qualsiasi essere vivente, di qualsiasi specie, famiglia, forma e provenienza il profitto. Appare più che evidente che il problema climatico non è, e non può essere, circoscritto solo allo sbalzo di temperature o all’incostanza stagionale – spesso descritte nei titoli acchiappa-clic delle testate giornalistiche mainstream come “Clima impazzito”, che ci spinge a fare il bagno a inizio aprile e a indossare il cappotto a inizio maggio – ma si inserisce piuttosto in una cornice più ampia di crisi che investe tutta la Terra. La recente guerra a Gaza, ad esempio, oltre a essere un genocidio è un ecocidio, il colonialismo infatti affonda le sue radici nell’abuso della terra e del corpo del colonizzato.
Ma non solo, emerge la necessità di unire i saperi, necessità che si rivolge all’eterogeneità con la quale possiamo provare a liberarci da una morsa che ci sta stringendo sempre di più e che si traduce in una “depressione diffusa, sovraccarico informativo, anestetizzazione dell’esperienza” (p.150). Inoltre, Pacini esplora come la tecnologia possa essere impiegata in modo sostenibile e collettivo per affrontare le sfide ambientali attuali e future, senza trascurarne le implicazioni a livello politico, economico e sociale.
Per non rovinare le sorprese al lettore, mi limiterò a dire che i temi centrali del libro sono l’analisi della deriva – non solo ecologica – della nostra contemporaneità e la pericolosità della tecnologia. Pacini smantella in centosessantacinque pagine, ricche di dati e di fonti, l’ideologia neoliberale e capitalista che ci ha portati a questo preciso momento storico, segnato da crisi che si intrecciano e sovrappongono tra loro. Lo fa così bene e senza giri di parole che il pessimismo di cui scrivevo sopra non ti si attacca addosso, non ti lascia un senso di vuoto o di sopraffazione, ma ti spinge a domandarti che cosa sia ancora possibile fare.
Non ci resta che provare ad attuare piccoli, quotidiani, sabotaggi culturali. Per dare un senso allo smarrimento e da quel senso ritrovare il bandolo della matassa, compito necessario e urgente, a patto che si sappia dove cercare. Lo sappiamo? No. O non ancora. Annaspiamo di crisi in crisi, di emergenza in emergenza, affidandoci ai rispettivi “specialisti”, confidando nei loro saperi cunicolari, nell’invisibilità dell’unica autentica crisi, quella del pensiero, che come scrive Edgar Morin “dipende [anche] dalla separazione e dalla frammentazione delle conoscenze, la cui riunificazione è considerata impossibile, rendendo quindi unilaterale, incompleta e di parte ogni considerazione relativa alla società, alla storia e alle crisi medesime”
(pp. 17-18)
*Immagine in copertina di Kelly Sikkema (via Unsplash), qui il riferimento.