di Massimiliano Mezzarobba
Nel suo brillante e ormai celebre articolo del 2003, lo storico britannico Donald Sassoon, ideando un’ipotetica intervista con un redivivo Karl Marx, sottoponeva all’attenzione del filosofo di Treviri una serie di scottanti questioni d’attualità. Quando, all’apice del serrato colloquio immaginario, Sassoon chiedeva all’intervistato un giudizio sull’odierno contesto politico statunitense, l’autore del Capitale gli rispondeva secco e sarcastico: “Un fantastico sistema di governo: […] la gente non è coinvolta. La metà se ne frega di votare. Per l’altra metà la politica è un innocuo divertimento, come guardare Chi vuol essere milionario”.
Non sappiamo se i (pochi) cittadini statunitensi recatisi alle urne in occasione delle elezioni di midterm dello scorso 4 novembre abbiano davvero vissuto la circostanza come un “innocuo divertimento”. Quel che è fuor di dubbio è invece che essi hanno definitivamente voltato le spalle all’esperienza storica del loro ultimo presidente. Manifestando in tal modo – al di là di ogni ragionevole dubbio – il grado di insoddisfazione raggiunto nel Paese nei confronti dello ‘show’ offertogli dall’amministrazione in carica.
A seconda di come si sceglie di guardarlo, questo sentimento dilagante in seno al popolo americano può apparire più o meno giustificato. L’insofferenza sempre più diffusa verso la presidenza Obama sembra, in altre parole, condivisibile o indecifrabile, supportata da solide argomentazioni o del tutto artefatta, in base alla lente ideologica attraverso cui la si vuole mettere a fuoco. A partire dal giorno immediatamente successivo alle votazioni, infatti, analisti e osservatori di tutto il mondo (Italia in testa) si sono dati battaglia, asserragliandosi su due fronti ben distinti, e ben armati: sul primo versante hanno preso posto tutti coloro che degli anni di presidenza Obama hanno inteso mettere in luce i lampanti successi, gli obiettivi inconfutabilmente centrati, i raggiungimenti storici irreversibilmente conquistati; sul versante opposto tutti coloro che, invece, ne hanno voluto enfatizzare le innegabili ombre, gli evidenti fallimenti, le promesse colpevolmente gettate al vento.
A destra, l’emergente sentimento americano anti-obama viene fomentato e applaudito, mentre a sinistra esso causa stupore, incomprensione e addolorate condanne. È sorprendente notare fino a che punto, estraendosi da ogni logica di parte, sia tutt’altro che facile scegliere con quale dei due allineamenti schierarsi. Entrambe le fazioni infatti non difettano di solidi argomenti a proprio fondamento. Da un lato, non si può negare che Obama, in particolare sotto il profilo della politica interna, abbia ottenuto dei risultati che (per quanto debbano ancora dimostrarsi sostanziali e duraturi nel tempo) appaiono ora eccellenti: a cominciare, naturalmente, dalla rapida e vigorosa ripresa economica, decisamente inaspettata (almeno in questa misura) dopo lo scoppio della grave crisi che tutti conosciamo. Dall’altro lato, è altrettanto vero che il presidente afroamericano non ha realizzato tutte, e fino in fondo, le promesse che aveva fatto durante la campagna elettorale del 2008; ed è vero inoltre che, per quanto riguarda la politica estera, spesso ha a dir poco vacillato, dimostrando talora un atteggiamento che a molti è sembrato ambiguo.
Viene quindi da domandarsi che cosa sia stato a pesare di più sui piatti della bilancia al momento di quest’ultima tornata elettorale: la percezione dei fallimenti, ingigantita dal raffronto con i numerosissimi impegni presi in campagna elettorale; oppure il graduale annebbiamento dei successi provocato dalle tante incertezze ed esitazioni dimostrate?
Sia vera l’una o l’altra ipotesi, bisogna in ogni caso rilevare che l’America non ha saputo reagire bene ai recenti tentativi di rinnovamento – talvolta operati, altre volte soltanto sbandierati – rispetto all’era Bush. Forse ancor prima che una reale delusione nei confronti di Obama, l’America ha dimostrato molto in fretta una montante stanchezza rispetto alle sue politiche, alle sue scelte, alle sue azioni, al suo atteggiamento. In una parola, l’elettorato americano, bruciato in fretta l’esagerato entusiasmo iniziale, ha finito con il condannare in toto il progetto del presidente democratico – quello, cioè, di costruire un sistema più modernamente democratico all’interno e, al contempo, un approccio più cauto e meno militarista verso l’esterno.
Il vero fallimento – più ancora dello scacco personale di Barack Obama, un presidente a cui, allo stato attuale dei fatti, la storia probabilmente non saprà riservare un ruolo di primissimo piano – è stato così quello del tentativo, forse autentico o forse solo decantato, di fare dell’America qualcosa di diverso da se stessa.
Con Obama ridotto ad “anatra zoppa” (che nel lessico giornalistico statunitense indica un presidente privato dell’appoggio politico delle due camere), e perciò completamente screditato nelle politiche che sei anni fa l’avevano reso grande, a fallire è l’ennesimo (e forse ultimo) grande tentativo di cambiare radicalmente faccia agli Stati Uniti d’America. Con l’azzoppamento di Obama muore il sogno (prima ancora che la reale praticabilità politica) di fare degli Stati Uniti una società più in armonia con se stessa e con il resto del mondo.
Muore, assieme a Obama, la speranza di veder nascere oltreoceano una potenza più vicina e più sensibile ai valori delle nostre democrazie europee. In breve, muore la speranza di veder nascere un paese più “europeo”, nel quale, tra le altre cose, le elezioni politiche vengano prese – almeno un po’ – più seriamente dello spettacolo di Chi vuol essere milionario.
Sinceramente non capisco tutta questa “speranza” che sta circondando, dalla sua elezione ad oggi, la figura di Obama. Verso cosa dovremmo ancora nutrire aspettative? La politica estera americana è rimasta pressoché la medesima del predecessore: se l’intervento americano in Iraq e Afghanistan (si noti, tra l’altro, che per il primo di questi la decisione del ritiro era stata già presa dall’amministrazione Bush e non è perciò merito di Obama) sta per esaurirsi, altrettanti conflitti – quelli in Siria e in Libia – hanno visto la diretta partecipazione degli U.S.A. durante il mandato del Nobel per la pace (sic!) Obama.
O forse dovremmo gioire per la stipulazione dei Ttip tra U.S.A. e Unione Europea, con il quale si sta per concedere alle multinazionali l’enorme potere di rivalersi nei confronti dei singoli stati (già da tempo non più “sovrani”), negando a questi ultimi la possibilità di promulgare leggi che possano danneggiare il sacro profitto dei privati (si pensi alla normativa italiana contro gli ogm, per esempio)?
Della riforma della sanità, sinceramente, non so cosa farmene, se il progetto di fondo è quello prima delineato: gli U.S.A. vanno ormai avanti a pane, imperialismo e liberal-capitalismo. È molto divertente sentire Obama che definisce l’ISIS il “male assoluto”: come se erigersi a giudici dell’umanità intera, intervenendo con il proprio esercito non appena possibile (il più delle volte all’interno di conflitti in cui gli U.S.A. non c’entrano nulla), e al tempo stesso continuare a sostenere un modello economico che ha dimostrato tutti i suoi limiti e le sue tragedie (sempre meno dissimulate), fosse il “bene assoluto”…
Se Obama è la “speranza”, tanti auguri.
Sono d’accordo con te Stefano, aggiungerei anche una cosa che forse non tutti ricordano, cioè che il medi-care di obama è un assist alle compagnie assicurative, in quanto lo stato paga l’assicurazione (privata) dei nullatenenti. Al contempo, come dice Massimiliano, un presidente così “di sinistra” gli Stati Uniti non l’avranno mai più. Obama era una speranza, la speranza che tutti abbiamo di vedere gli Stati Uniti autocensurarsi e ridimensionarsi, ma questa – purtroppo – non è (o non è più) la speranza del popolo americano. Come raccontava anche Nicola nel suo pezzo sul popolo dei fast-food, l’America è totalmente allo sfascio, stanno peggio di noi, e fanno di tutto per non lasciarlo trapelare a causa del famoso discorso sull’ottimismo. Hanno i tassi di interesse tra 0 e 0.25, il denaro sta diventando carta straccia (o lo diventerà tra non molto), i dati sulla disoccupazione vengono truccati facendo basculare inattivi e aspiranti lavoratori al solo scopo di far continuare a correre wall street (come infatti sta facendo). Le borse hanno bisogno di dati decenti sulla disoccupazione per continuare a toccare i massimi storici di questi ultimi mesi. L’economia reale e la finanza non sono state mai lontane come oggi negli Stati Uniti.
e per finire con un po’ di amara ironia… non si può ritirarsi da un paese occupato per dieci anni e non accorgersi che ce un esercito islamico armato fino ai denti è pronto a conquistare tutto il Medio Oriente. Cioè… non fai una bella figura coi tuoi elettori che quella guerra, ormai, l’hanno già pagata fior di miliardi e per un intero decennio… quando si lascia si lascia bene… altrimenti lasciare diventa un boomerang di immagine… (ragion per cui tutti abbiamo sentito parlare dell’Isis per la prima volta quando ormai aveva conquistato mezza Siria e mezzo Iraq)
Nel frattempo, mentre noi stiamo qui a discutere sulla collocazione politica di Obama, qualcun altro (sempre lui, il Nobel per la pace) sta continuando i raid aerei: http://www.internazionale.it/notizie/2014/11/17/continuano-i-raid-aerei-degli-stati-uniti-contro-il-gruppo-stato-islamico.
Sarebbe ora di rendersi conto che in America “destra” e “sinistra” (o, come si chiamano lì, “repubblicani” e “democratici”) hanno completamente perso il loro significato: entrambi gli schieramenti portano avanti i medesimi interessi, con le medesime politiche e la medesima ideologia.
occhio Stefano che però così sembra un po’ che tu dica che l’isis sono i buoni e che obama è il cattivo, ma come sai anche l’isis è un esercito con ambizioni imperialisitche… le cose non sono così semplici… Sarebbe fichissimo se gli amici yankee si suicidassero, ma temo che purtroppo non ne abbiano voglia… 🙂
Non vi sembra (mezza e stefano) che la questione guerra e politica estera sia clamorosamente sfuggita di mano agli USA e a Obama in particolare? Non viene più da dire che le progettano dall’alto (le guerre),sembra piuttosto che subiscano i contraccolpi dei casini che hanno fatto in giro negli ultimi vent’anni.
ps: ogni volta che penso che negli anni Trenta il ku klux klan aveva venti milioni di affiliati negli Usa mi vengono i brividi…
Mi spiace ma non ragiono in termini di “buoni-cattivi”. Guardo semplicemente alle conseguenze delle politiche altrui nella mia vita, e non possiamo paragonare l’influenza esercitata sulla nostra vita da parte dell’ISIS, il cui fenomeno è nato e cresciuto, come giustamente osservi, proprio a causa dell’atteggiamento americano (il che fa venir meno la stessa opposizione America-ISIS), con quella esercitato dagli USA. Le politiche statunitensi hanno plasmato il mondo a propria immagine non solo in senso bellico – vogliamo paragonare, visto che parli di “buoni” e “cattivi”, il numero di morti civili causati dagli USA nel mondo arabo con quelli provocati dall’ISIS? –, ma economico, ambientale e sociale. La loro politica, in quanto affermatasi in Europa come “modello di vita”, è totalizzante.
Pertanto: fra una politica che non condivido ma che è – almeno geograficamente – limitata, e un’altra (ugualmente non condivisa) che invece si alimenta in modo incessante da almeno sessant’anni e plasma l’intero pianeta (noi compresi), non avrei dubbi su chi identificare come “cattivo”…
Non ti sembra che in questo momento l’America si torvi nella paradossale situazione per cui vorrebbe togliersi un po’da tutti i casini che ha creato, ma non può, perché l’ha fatta molto più grossa di quel pensava?
Quello che volevo dire con “buoni e cattivi” è che bisogna stare attenti a non considerare “amici” tutti i nemici dei nostri nemici, cosa che è sempre una tentazione forte…
Sinceramente? No.
…non hanno più un centesimo… manco per far le guerre…:) e poi, dove conveniva farle ormai le hanno già fatte…:)
non lo so se è il mio desiderio che mi fa straparlare così, ma a me l’America oggi sembra una ex superpotenza che sta declinando lentamente – ma insesorabilmente – verso il proprio tramonto. Chissà chi prenderà il suo posto… quel posto non resta vacante a lungo… purtroppo…
Andreamuni mi chiede con cortesia di entrare in questo dibattito. La mia iniziale riluttanza era dovuta al fatto che in verità non vedo molto dibattito possibile: poche cose sono infatti lontane da me quanto l’intenzione di schierarmi a favore dell’esperienza storica di Obama, di elogiarlo o di difenderlo. Resta il fatto che la situazione attuale, nel disastro anche elettorale di Obama, rispetto agli entusiasmi di 6 anni fa, che avevano coinvolto anche molti di noi giovani comunistelli di allora (e che probabilmente erano dovuti a una scarsa lucidità di sguardo, è vero, ma pur sempre entusiasmi erano), lascia l’amaro in bocca di un’irripetibile occasione perduta. Tutto qui.
Grazie Mezza di partecipare 😉 sì credo tu abbia ragione, una cosa è l’analisi delle ragioni per cui il popolo ha voltato le spalle a Obama, e un’altra è li fatto che Obama era effettivamennte “il migliore dei presidenti possibili” che potessimo augurarci per l’america – specialmente sei anni fa. Anche quello che ti obbietta Stefano al contempo è corretto, secondo me, cioè che la sconfitta di obama non dovrebbe – oggi – lasciarci delusi, perché nella sostanza le sue politiche sono state quelle abituali degli Stati Uniti quando li governano i democratici. Pongo anche a te la domanda, a cui stefano mi ha già risposto seccamente di no (e a cui io invece io mi sono auto-risposto di sì), riguardo all’attuale situazione della politica estera (e interna) americana: “non ti sembra che in questo momento l’America si torvi nella paradossale situazione per cui vorrebbe togliersi un po’da tutti i casini che ha creato, ma non può, perché l’ha fatta molto più grossa di quel pensava?”
Per farla quanto più breve possibile: io credo personalmente che la parte “democratica” della politica statunitense, anche in forza della sua propria tradizione intellettuale, capisca di economia un po’ di più della parte “repubblicana”; e credo che anche grazie a ciò i democratici attualmente al governo comprendano che, vista la delicata congiuntura, un atteggiamento diverso da quello che stanno faticosamente mantenendo in politica estera – un atteggiamento diciamo più “intraprendente” – risulterebbe intempestivo e difficilmente sostenibile. Tuttavia non arrivo al punto di credere che i democratici respingano completamente la tendenza “imperialista” più tipica dei repubblicani. Non credo che essi la ritenengano inefficace o infeconda.
In sostanza, credo che gli Usa, da un lato, non possano e non vogliano abbandonare del tutti i vecchi campi di battaglia per una lunga serie di ragioni geopolitiche; dall’altro lato, non possano permettersi il vecchio interventismo dei bei tempi andati per ragioni essenzialmente finanziarie (e quindi anche elettorali).