di Ilaria Moretti
“Quanto tempo può durare un’adolescenza?”. Se lo chiede Silvia che ha sposato Fabrizio un po’ per amore, un po’ per ostinazione. Voleva provare a se stessa di essere tenace, una con i nervi saldi, la ragazza moderna che sa quel che vuole. È accaduto dopo la guerra, nei giorni della speranza, quando l’idea del matrimonio le pareva una liberazione, un modo per sgravarsi dal peso della sua infanzia, cancellare l’odore delle minestre di sua madre, lo sguardo stanco del padre. Fabrizio, all’inizio, sembrava perfetto. L’aveva incoraggiata – risvegliata – scuotendola dal torpore della sua esistenza piccolo borghese. Le aveva fatto scoprire Peer Gynt insegnandole il brivido di un “libro vero”, parole che sapessero squarciarla e restituirle una se stessa diversa. A che serve stare al mondo – le diceva lui – se si deve sempre dare colpa agli altri? “La nostra vita dobbiamo essere noi a farcela” e Silvia lo sapeva, gli dava ragione. Così lei, destinata a essere semplicemente una moglie, riprende a studiare, prepara l’esame d’ammissione per entrare all’Accademia di Brera. Lo studio è fatica, grigiore, eppure permane il miraggio di un futuro “bellissimo”, quando finita la guerra diventerà una scultrice affermata, lui un uomo di lettere, andranno nel mondo, avranno dei figli, sarà il tempo della rinascita.
Silvia, all’Accademia, non si iscriverà mai. Passerà l’esame, vincendo le ritrosie dei genitori – “ancora con questa storia dello studio?” – ma poi il tempo passa, arrivano i giorni della liberazione, la guerra è finita per davvero, c’è il rumore dei passi sull’acciottolato, le calze blu afflosciate attorno alle caviglie, speranza e ancora speranza. Per studiare, farsi una professione, c’è tempo. Fabrizio, invece, si laurea. Ma è svogliato, spesso di cattivo umore, soffre di malattie immaginarie, è mammone e ipocrita, egoista, il tempo da dedicare a Silvia è sempre dopo. Eppure lei, tenace, imbocca la via dell’errore: lo fa con coscienza, lo sa, quasi, che non esiste il Matrimonio perfetto, che la polvere si nasconde sotto il tappeto ormai da generazioni. Non la vuole fare la fine dei suoi genitori. Però è stanca di nascondersi, stanca di sognare il corpo di Fabrizio, di rubare ore d’amore sotto i sassi spioventi di una spiaggia abbandonata: vuole la legalità, l’approvazione generalizzata, vivere senza il peccato e trasformarsi in sposa perfetta.
Tutto, in Silvia, è una conquista: i due figli, il tempo da trascorrere con il marito, le carezze e il bisogno d’intimità che poi, con gli anni, si trasforma in spavento, in urla soffocate sotto al cuscino ché i corpi, ci insegna Carla Cerati, dopo un po’ di tempo non si appartengono più. Non si deve lasciar passare lo spettro dell’indifferenza perché il freddo, poi, si incunea nei rapporti, li sciupa e quando un giorno ci si volta e si cerca di rimediare è troppo tardi. Eppure i segnali c’erano: la famiglia di lui, la protezione asfittica della suocera, gli sguardi di sfida travestiti da falsi sorrisi, il futuro già preordinato sotto il segno della fatica, come da tradizione. Lo sapeva, Silvia, che la vita insieme sarebbe stata un inganno: lo sapeva guardando l’esistenza misera di Fabrizio, i calzoni rammendati alla buona, la mancanza di gusto a tutti i costi, il crogiolarsi in una povertà cattiva come fosse materia di paradiso, l’avarizia nei sorrisi, il piacere perverso nel cancellarle il desiderio di dosso quasi che fosse roba sporca. Lo sapeva durante le litigate furibonde quando, ancora ragazzina, assumeva un tono “dolce e falso”, il tono di chi cerca di commuovere e invece vuole picchiare, “voltare la realtà a gambe all’aria, disfare i destini già segnati”.
Perché, sembra dirci Carla Cerati nella lunga gestazione di questo suo secondo romanzo (Un matrimonio perfetto, scritto nel 1960, riscritto fino al 1974 e interamente riveduto nel 1990), giovinezza significa lucidità: poi si diventa adulti, ci si dimentica di ciò che si è, si cade nel buio. Si smarrisce il senso della misura, si mettono a tacere verità che parevano ovvie. Silvia si sposa, Silvia fa due figli, Silvia aspetta per ore il marito che arriva in ritardo a ogni cena. Silvia cuce, la notte, con la testa che ciondola per la stanchezza, guarda la luna lontana, si lascia commuovere dalle ombre lunghe che attraversano la strada sotto casa, poi crolla, sfinita, al primo mattino, con le tazze del caffè vuote e l’ago ancora stretto tra le dita.
Non è un romanzo femminista. Le “cattive ragazze” forse arriccerebbero il naso nel leggere di una protagonista così accondiscendente, così, come diceva Sartre, “metà vittima, metà complice” al pari di qualsiasi altro essere umano. Perché Silvia vuole cadere nel tranello, non fa nulla per emanciparsi, sogna fughe immaginarie con i vicini di casa, passeggia per le vie abbracciata al corteggiatore di turno – dopotutto Fabrizio è spesso assente – lascia i bambini ai genitori, si intrattiene con giovani uomini, vagheggia di una seconda giovinezza, vuole amore, altro amore, chili di amore e comprensione. Non si costruisce un’indipendenza vera, resta in casa a cucire illudendosi di avere più soldi per meglio vivere, beve tè e chiacchiera con le amiche al pari delle tante donne che spesso critica, scaccia amore estivo con amore autunnale, l’esistenza delle sue passioni è solo platonica, al massimo c’è qualche assalto, “inguine contro inguine”, niente di più. Per lungo tempo si illude che Fabrizio, il suo Fabrizio, le conceda la considerazione che merita, il giusto ruolo di moglie. È contraddittoria quando lo venera da lontano, per lettera scritta – “ci amiamo, dobbiamo solo smetterla di derubarci l’un l’altra” – ma poi ritornata in città, nella casa coniugale, sembra una moderna Emma Bovary vinta dal ribrezzo mentre osserva Charles mangiare. C’è disgusto per il modo con cui il marito taglia il pane “tenendolo sospeso sopra il piatto vuoto”, c’è antipatia per la voce ingolfata dal cibo: “il rumore della masticazione mi spingeva al più alto livello di insofferenza”.
Silvia riesce a svegliarsi ma resta complice. Non si ribella se non per i brevi mesi estivi, in riviera, le sue sono fughe “nell’azzurro”, lunghe nuotate in mare aperto, incontri scanzonati con gente della sua età, bagni di luce, sere a ballare e a bere al bar del centro. Sembra una come tutte, una venticinquenne irrequieta e bellissima, ma ha due figli piccoli che dormono a casa dei nonni, un marito restato al nord per lavorare, pile di vestiti da cucire per il rientro in autunno, un appartamento con le stanze sempre vuote. Ci vorrà del tempo per capire, per riconoscere il rispetto di un uomo, del tempo per comprendere che la solitudine è un bisogno, uno spazio del cuore, un luogo fisico, unica via possibile per ricostruire se stessa.
La storia di Silvia è in parte la storia di Carla (ma è al contempo la storia di infinite Silvie e di infinite Carle) fotografa e scrittrice nata a Bergamo nel 1926, un mancato avvenire da scultrice – nemmeno lei, pur avendo passato il test d’ammissione, si iscriverà all’Accademia – un matrimonio a ventun anni, dei figli, il lavoro come sarta. Eppure, ad osservare la zazzera ribelle di Carla Cerati, le sue fotografie in bianco e nero con la Rollei del padre, il piglio sicuro nel catturare gli occhi di Antigone a teatro o la prodezza dei suoi scatti da fotogiornalismo, vien da dire che sì, forse si è sempre a tempo, forse la vita è una questione di capitoli, di epoche che si susseguono una dopo l’altra. Accade così nel suo Matrimonio perfetto: ad ogni capitolo corrisponde un colore, un odore, un materiale. L’ultimo è il cinabro, il rosso vermiglio della riscoperta, l’accettazione delle parole come un fiume che le ha attraversato la vita e la consapevolezza racchiusa in quell’ultimo, sfrontato, eco di battaglia: “non sono più la stessa ma voglio essere me stessa”.