di Francesco Ruzzier
Una sera di più o meno quattro o cinque anni fa ero andato al Cinema Lumière della Cineteca di Bologna per vedere Fuori Orario di Martin Scorsese in pellicola. Non sapevo che il film sarebbe stato introdotto da Enrico Ghezzi; a dire il vero, non lo sapeva nemmeno lui. Pensava infatti di essere stato invitato per presentare Hugo Cabret, che era uscito in sala da poco, e quindi su Fuori Orario non disse una parola. Quello che mi ricordo è che disse qualcosa del tipo che si può definire “grande” un film non tanto per le immagini che vediamo proiettate sullo schermo o per la storia che viene narrata, quanto per ciò che quelle immagini proiettano nelle nostre menti, per i ragionamenti paralleli che ci portano a compiere.
Si dà il caso che ieri, dopo più o meno quattro o cinque anni, le parole dell’introduzione a un film sbagliato, che io non mi aspettavo nemmeno di sentire, mi siano tornate in mente. È successo mentre guardavo un film che con Fuori Orario, Hugo Cabret, Martin Scorsese, Enrico Ghezzi e il Cinema Lumière della Cineteca di Bologna, neanche a dirlo, non c’entra assolutamente niente. E sono riaffiorate perché guardando Golden Exits di Alex Ross Perry mi sono ritrovato a pensare a un passo di un libro – La zona d’interesse di Martin Amis – che con il film non ha nulla a che vedere; però c’è una scena, verso la fine del romanzo, in cui uno dei protagonisti si ritrova, dopo anni, davanti alla moglie del suo superiore di quando lavorava in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale; una donna che aveva amato più di ogni altra, ma con cui, per ovvie ragioni, non aveva mai potuto costruire una relazione. La scena, Martin Amis, la descrive così:
“Sullo sfondo di un cielo neutro e incolore quanto carta da ricalco, vestita di una maglia e una gonna lunga abbinate e assai dimesse, cento per cento cotone, cento per cento blu scuro, eccola che arrivava – ridimensionata (lo eravamo tutti), ma sempre alta, robusta, piena, e con la stessa andatura leggera. Mi sono alzato.
– Questi naturalmente sono per lei. Per farla sentire una stella del cinema.
– Amarilli, – ha detto, verificando sobriamente. – Con dei pistilli grossi come porri. Mi dia un secondo che li metto nell’acqua.
Per farlo ha dovuto inginocchiarsi. Quando si è raddrizzata, togliendosi un filo d’erba dalla manica, ho di nuovo avvertito quel piacere complesso, quello strano miscuglio di pena e diletto. Fare questo, o quello, in questo modo, e non in quello. Le sue abitudini, le sue scelte, le sue decisioni. Con acuto desiderio, nonché una stretta di terrore, ho capito che la sua presa sui miei sensi era intatta e assoluta; era gemebonda ma in qualche modo anche comica, questa presa, e mi faceva venire voglia di ridere, e mi faceva venire voglia di piangere”.
Golden Exits, con le sue coppie newyorkesi messe in crisi dall’arrivo di una splendida ragazza australiana, con i suoi dubbi, le angosce e i rapporti interpersonali descritti con una naturalezza, un’umanità e una malinconia che a tratti quasi non ci si crede; con le sue fotografie nostalgiche, le bottiglie di vino, gli Abbracci del Mulino Bianco, New York Groove cantata da Emily Browning e le camicie a fiori, mi ha dato quasi la sensazione di essere in un cinema della Grande Mela negli anni ’70 e ’80 mentre veniva proiettato uno dei primi film di Woody Allen. Anche qui, il film di Alex Ross Perry con Woody Allen non c’entra poi molto: lo stile, le battute, l’atmosfera e lo sviluppo della narrazione sono molto distanti da quelli del regista di Manhattan, però è stato come se quella distanza temporale, che purtroppo ho sempre sofferto guardando quelli che sono alcuni dei miei film preferiti di sempre, fosse stata per la prima volta azzerata. Nei personaggi che abitano Golden Exits ho ritrovato la stessa consapevolezza nel vedersi vivere, nel sentirsi parte di una commedia già scritta, nel saper ricoprire il proprio ruolo – scritto, riscritto e incredibilmente cinematografico – da esseri umani. Il tutto raccontato senza l’imperativo diffuso di rimuovere il dolore a tutti costi.
E quindi, in un certo senso, mi è sembrato di ritrovarmi nella stessa situazione del protagonista del romanzo, di fronte alla donna che più ha amato nella sua vita, senza averlo mai potuto fare veramente, ma continuando a emozionarsi, ogni volta.
Ragionandoci a posteriori, l’unico modo in cui mi sembra possibile raccontare Golden Exits è attraverso un ulteriore rimando, utilizzando le parole del monologo finale di quello che è il film che più amo di Woody Allen: Crimini e misfatti. “Per tutta la vita siamo messi di fronte a decisioni angosciose, a scelte morali. Alcune di esse importantissime, la maggior parte meno importanti. E noi siamo determinati dalle scelte che abbiamo fatto, siamo in effetti la somma totale delle nostre scelte. Gli avvenimenti si snodano così imprevedibilmente, così ingiustamente. La felicità umana non sembra fosse inclusa nel disegno della creazione, siamo solo noi, con la nostra capacità di amare, che diamo significato all’universo indifferente. Eppure la maggior parte degli esseri umani sembra avere la forza di insistere e perfino di trovare gioia nelle cose semplici: nel loro lavoro, nella loro famiglia e nella speranza che le generazioni future possano capire di più”.
Per tutto questo, Golden Exits mi è sembrato un film meraviglioso. E mi faceva venire voglia di ridere, e mi faceva venire voglia di piangere.