di Stefano Tieri
A distanza di un anno dall’entrata del coronavirus nelle nostre vite, possiamo dire che se il Covid-19 è stato in grado di rivelare qualcosa sulla natura umana, non è tanto la sua darwiniana capacità di adattamento, quanto la sua parte più spregevole: il suo profondo egoismo.
La solidarietà sociale di marzo 2020, durante la così detta “prima ondata”, piena di slogan benevoli, musica condominiale e abbracci virtuali – curioso che allora nessuno abbia parlato di buonismo – in pochi mesi pare essere scomparsa del tutto. Passata la paura, dopo un’estate di “non ce n’è coviddi”, sono bastate le prime (timide) restrizioni a sollevare polemiche sempre più diffuse, provenienti da settori variegati e dagli interessi divergenti.
Covid e lavoro
Ci sono coloro che, a causa della situazione economica e lavorativa, se la passano male per davvero, verso i quali ci si sarebbe aspettata tutta la solidarietà possibile. Il popolo del reddito di cittadinanza (per molti scaduto proprio in queste settimane), di chi lavorava (non per propria volontà) in nero, e perciò non può accedere a cassa integrazione o alla disoccupazione, del precario che tirava a campare di espedienti, tra contratti brevi e brevissimi, e si è ritrovato, senza neppure quella minima entrata, a non aver diritto ad alcuna tutela. Per non parlare di un mondo a noi vicino come quello delle lavoratrici e dei lavoratori della cultura, spesso autonomi.
Invece, accanto alle legittime proteste degli ultimi, abbiamo imparato a conoscere le fantomatiche argomentazioni di chi nega l’esistenza del virus o critica i metodi per contrastarlo, senza le ben che minime competenze di epidemiologia. Chi vuole “riaprire tutto” – per la gioia di Confindustria – salvo poi non preoccuparsi delle condizioni di lavoro dei propri dipendenti, provocando focolai tra protocolli di sicurezza ignorati e misure non idonee (basti pensare alle aziende della Versilia, per citare il caso più eclatante delle ultime settimane). Chi ancora, nella criminalità organizzata, cerca di sfruttare il disagio sociale per accrescere il proprio controllo sul territorio.
Quale libertà?
Colpisce come tra le argomentazioni più dibattute, a fronte di numeri statistici decontestualizzati, ci sia solo di rado la sacrosanta critica verso i tagli alla sanità pubblica o alla ricerca – tradizioni nefaste, in Italia lunghe decenni e avvallate da schieramenti politici di ogni colore. Invece il punto della questione pare essere l’obbligo di indossare la mascherina, attaccato in nome della propria “libertà”. La quale non viene negata dalla costrizione a imbracciare le armi, oppure a emigrare a seguito di condizioni atmosferiche divenute inospitali. Né perché siamo sottomessi a un regime di apartheid, come accade quotidianamente nel mondo, nella totale indifferenza dei “no mask” e dei loro consimili. Le nefandezze perpetrate con il contributo dell’industria nazionale – sotto forma di finanziamento al settore delle armi, alla partecipazione attiva nei conflitti, all’inquinamento selvaggio – non vengono considerate da questi paladini della libertà un problema, perché in fondo non se ne sentono toccati.
Nihil novum sub sole quindi. Dopotutto è la logica individualista del caro, buon, vecchio capitalismo.