di Ilaria Moretti
È morta nel 2011 a Neuchâtel, sua città d’adozione. Aveva settantacinque anni e da tempo non scriveva più. A guardare a passo di gambero l’opera di Agota Kristof, scrittrice ungherese naturalizzata svizzera, il tutto suona quasi come una premonizione. In un’intervista del 2005 a Stefania Vitulli aveva confessato di essere stanca, la scrittura aveva perso d’attrattiva, non le interessava più pubblicare: “l’ho già fatto abbastanza”. “Fa lo stesso”, ripeteva, citando il titolo della sua futura (“ma sarà l’ultima”, giurava) raccolta di racconti: C’est égal (Seuil, 2005). Scrivere, non scrivere, amare un uomo o lasciarlo: “fa lo stesso. Non è l’età che mi ha portato a questo punto, sono sempre stata così”.
Le opere pubblicate, invece, non fanno “lo stesso”. Sono scritte, per la maggior parte, nella sua lingua d’adozione, il francese: la lingua “nemica”. Si tratta di testi che seguono una traiettoria precisa, si snodano sulla linea dei fatti perché, piuttosto che gli arzigogoli e i dettagli, per Agota era meglio camminare in direzione della realtà: il resto è superfluo – sosteneva –, sfocia nell’artificio. È quello che è accaduto con L’analphabète (Édition Zoe, 2004, edito in Italia da Casagrande, 2005) raccolta di scritti autobiografici composti all’inizio degli anni Novanta. “Quelli dell’Analfabeta sono testi di vent’anni fa. Ho dato tutto quanto all’Archivio perché non avevo alcuna intenzione di pubblicare i vecchi testi. Per me sono finiti, come se li avessi gettati via. Qualcuno, editori italiani, li ha trovati, gli sono sembrati interessanti, li ha richiesti”.
E per fortuna, verrebbe da dire. Perché Agota Kristof se ne è andata ma ha lasciato in eredità una lezione preziosa, tanto più utile nell’Europa di oggi, teatro d’insicurezze e contraddizioni. La storia del Vecchio Continente è antica ma l’identità di ciascun cittadino resta un percorso in fieri: non esistono dati acquisiti, certezze acquisite. Le nuove migrazioni che ci colgono impreparati sono le migrazioni di quella stessa ragazza ungherese che, nel 1956, con l’aiuto di un “passeur” di nome Jospeh, attraversava la frontiera e arrivava in Austria. “Mia figlia dorme tra le braccia di suo padre, io porto due borse. In una ci sono dei biberon, delle fasce, abiti di ricambio per la piccola, nell’altra borsa ci sono i dizionari”. “Eravamo un gruppo composto da dieci persone”, i ricordi sono confusi. La testa e la scrittura corrono indietro a quella terribile notte al confine: voci, strilli, qualcuno si fa prendere dal panico, le donne sono disperate, la strada per il villaggio sembra perduta. “Una luce potente ci illumina all’improvviso, una voce urla: Alt! Uno di noi risponde in tedesco: Siamo dei rifugiati”.
Sono i dizionari a permetterle la risalita. Lo shock linguistico che l’aveva attanagliata da bambina ora non la spaventa più. Lo sa, ormai, che le lingue sono infinite, una babele di codici che sfuggono, si modificano, si perdono. Ma nel tempo indefinito dell’infanzia tutto pareva diverso: “all’inizio non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano questa stessa lingua”. È a nove anni, a seguito di un trasloco presso una città di frontiera, che avviene lo scontro con il reale: “almeno un quarto della popolazione parlava tedesco. Per noi ungheresi era una lingua nemica, perché ci ricordava la dominazione austriaca ed era la lingua dei militari stranieri che, all’epoca, occupavano il nostro paese”. Poi, due anni più tardi, la lingua russa diventa obbligatoria nelle scuole e le altre lingue straniere – tutte le altre – “sono vietate”. Infine, arrivando in Svizzera, per puro caso, all’età di ventuno anni, in una città dove si parla unicamente il francese, Agota è costretta a confrontarsi con un nuovo ostacolo. “È stato qui che è cominciata la mia lotta per conquistare questa lingua, una lotta lunga e ostinata che durerà per tutta la mia vita”. Il francese è una lingua ‘cattiva’ non soltanto per la difficoltà d’apprendimento ma perché lavorerà, giorno dopo giorno, a portarle via l’unica certezza che le era rimasta – l’ungherese – sinonimo di casa, passato, identità: “questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna”.
Ma l’Analfabeta, soprattutto, è la testimonianza di un apprendistato. È la storia di una bambina vivace che impara a leggere a quattro anni. I soldi sono pochi, la casa è spoglia ma Agota si diverte, costruisce identità fittizie per spaventare il fratello più piccolo, combina disastri e quando sbaglia viene mandata in punizione nell’aula dove papà è insegnante. La punizione, però, si rivela un premio: la magia è quella dell’apprendimento. Ascoltando papà che fa lezione Agota trasforma l’espiazione della sua ‘colpa’ in un modo per crescere anzitempo. La sua diversità è motivo di scherno e la lettura una malattia spesso malvista dalla più parte della gente: “è pigra, non fa niente, passa tutto il tempo a leggere”. Ma è attraverso la scrittura, prima di brevi pièce teatrali in ungherese, poi di racconti, infine di poesie composte nella fabbrica di orologi di Neuchâtel, che il mondo le si rivela. La scrittura nasce sempre dal “dolore”, è un mezzo per incanalare la sofferenza della distanza da casa, è lo strumento utilizzato da adolescente per sopportare la dura vita nel pensionato per “sole ragazze” quando la mancanza della famiglia è una ferita che le secca la gola. Le parole non curano ma sono un balsamo, un liquore capace di scaldare le notti infernali della giovinezza, leniscono le piaghe di una vita adulta trascorsa in un paese straniero, attutiscono i ritmi impossibili del lavoro da operaia scanditi dai risvegli all’alba e dal rumore monotono delle macchine: “la fabbrica è perfetta per scrivere poesie. […] Si può pensare ad altro, le macchine hanno un ritmo regolare che scandisce i versi”.
Per tutta la vita c’è stata la fiducia, l’idea che scrivere fosse un piacere privato, un modo per definirsi: prima nella lingua madre, poi nel lemma straniero. Il mezzo, forse, per diventare cittadina d’Europa e del mondo, lo strumento utilizzato per sentirsi a casa tra pagine ora famigliari ora straniere. La fiducia con il tempo si è trasformata, quasi, in una faccenda di integrazione. I confini fisici sono stati abbattuti da quelli intellettuali: il percorso letterario le ha permesso un’adesione a se stessa, la scrittura è stata il filo d’Arianna che le ha aperto gli occhi, sorreggendola nella fatica, illuminandole il cammino anche quando la strada pareva smarrita. Attraverso le parole si è conosciuta, perduta, ri-conosciuta. Eppure “l’ostinazione e la pazienza” che l’hanno accompagnata per tutta la vita, sostenendola nello sforzo del re-imparare a leggere, re-imparare a scrivere, sono scomparse nella fase della vecchiaia. Le ultime esternazioni di Agota – quell’idea mortifera che tutto è uguale, che non c’è differenza – suonano, quasi, come una contraddizione allo sforzo perseguito per un’intera esistenza.
Non è così. Il nucleo della sua riflessione è rovesciato. Lo sappiamo che Agota non era un’analfabeta, così come sappiamo che il sentimento di inferiorità linguistica non era dissimile da quell’“idiozia” congenita di cui Flaubert prima e Sartre poi hanno scritto, mostrando come il guasto – il tarlo primigenio – altro non era che la chiave per essere, per sentire prima degli altri, più degli altri. Agota ha lavorato, per tutta la vita, avendo fede nella propria opera. Ha avuto fede anche quando ha finto il contrario, ha voluto far credere che tutto fosse finito ma lo sapeva che era un gioco, che quel titolo in francese, “orgogliosamente” scelto da lei, quel C’est égal della penultima raccolta, in realtà faceva eco a un concetto opposto. Ha scritto pur sentendosi un’emarginata, una straniera. Si è portata appresso dizionari e sbavature linguistiche sforzandosi di scardinare le parole, di farle sue trovando, attraverso una letteratura dura ed essenziale, un modo per integrarsi, per non sentirsi estranea, elemento altro da additare come nemico. Ci è riuscita. La sua opera ha avuto fortuna, gli editori hanno creduto nei suoi versi, nelle battute da teatro, nei brevi scritti che compongono questo e altri libri. Ci è riuscita costruendosi una terza identità, quella di cittadina d’Europa, accettando la sfida della complessità e della distanza. Per questo il suo è un lascito prezioso, un’eredità da tramandare ché, come suggerisce Massimo Recalcati, “il fiume della lingua è il fiume da cui tutti noi proveniamo”, il mezzo attraverso cui ci generiamo scoprendoci “degni di un linguaggio”, dunque uomini, esseri pensanti, creature vive.