di Marco Pacini
Che io guardi gli uomini con occhio buono o cattivo, li trovo sempre intenti, nel loro insieme e ciascuno per sé, a un unico compito: fare quel che giova alla conservazione della specie umana.
Friedrich Nietzsche, La Gaia scienza
L’espediente di “usare” Nietszche, rovesciando l’incipit de La Gaia scienza tramite la sostituzione di “giova” con “nuoce”, porta dritto al Latour più politico, polemico: l’intellettuale engagé che in nome della suprema causa (forse l’ultima) sferza i contemporanei gridando il suo allarme pregno di un “umanismo” definitivo, di specie.
Nonostante la non tempestiva ricezione del suo pensiero, anche in Italia si è detto e scritto molto sulla vasta e transdisciplinare opera del sociologo-filosofo-antropologo francese scomparso il 9 ottobre scorso. Sottolineando soprattutto la dimensione eco-politica della sua eredità. Si tratta di una lettura legittima, beninteso: autorizzata dalla stessa biografia intellettuale di Bruno Latour, che negli ultimi anni, come pressato da un’indifferibile dovere, da un’urgenza morale, ha tradotto via via il suo universo teorico in un “che fare” radicalmente politico, benché si possano solo intravedere le premesse di una “teoria politica”. Basti pensare a Où atterrir. Comment s’orienter en politique del 2017 (L’edizione italiana porta il titolo Tracciare la rotta, mantenendo il sottotitolo). In questo percorso – e nel suo approdo – è la parola “radicalmente” a funzionare da bussola, e da chiave interpretativa, per una parte consistente degli studi pre-politici di Bruno Latour; in particolare per La sfida di Gaia.
Alieno dalle posture dell’intellettuale engagé (o dal loro ricordo), Latour si è tuttavia fatto carico di un impegno teorico e politico inaudito: quello di pensare un mondo che per noi moderni è impensabile. Sia che volgiamo lo sguardo all’attualità della politica “che non si innesta più su niente” poiché “né il Globale né il Locale hanno un’esistenza materiale durevole”, sia che lo volgiamo alla storia dell’ultimo tratto percorso dalla nostra specie; o meglio: da quella porzione di umanità strana (weird) che l’antropologo e biologo evolutivo Joseph Henrich ha tradotto in un efficace ancorché riduttivo acronimo: Western, Educated, Industrialized, Rich, Democratic. Si tratta di quella “porzione” che Latuor ha battezzato “i Moderni” e che naturalmente non comprende solo gli “occidentali” in senso geografico e geopolitico.
Latour ci rovina la festa. Con un gesto filosofico “violento” manda gambe all’aria il tavolo apparecchiato dalla modernità per i commensali w.e.i.r.d e per quelli in attesa di un “secondo turno” che non arriverà. Quelli che si trovavano “sull’altro lato del fronte della modernizzazione: i (neo) autoctoni, gli arcaici, i vinti, i colonizzati, i dominati, gli esclusi”. Nutrito da una vasta cultura scientifica – con una particolare attenzione alle “scienze minori” che tastano il polso alla biosfera – Latour radicalizza il tema della fine della modernità, disancorandolo da saperi “troppo umani”, per farlo precipitare su una Terra che non ha più solo un movimento (come quella di Galileo), ma anche un comportamento reattivo esorbitante rispetto a quello dei cicli naturali.
Ciò che fa dell’Antropocene un eccellente marcatore, un chiodo d’oro chiaramente riconoscibile ben al di là della frontiera della stratigrafia, è il fatto che il nome di questo periodo geostorico può divenire il concetto filosofico, religioso, antropologico e […] politico più pertinente per cominciare a voltare le spalle definitivamente alle nozioni di moderno e di modernità.
Bruno Latour, La sfida di Gaia
Siamo immersi in un paradosso: come se ci trovassimo di fronte alla vetrina di un negozio che annuncia “fuori tutto”, ma praticando prezzi più alti, invece degli sconti. Fuori le categorie del politico che hanno innervato la nostra civiltà; fuori l’idea di umanità che non riusciamo a immaginare se non come progressiva; fuori l’idea di natura che questa umanità aveva costruito separandosene. Perché “il concetto di natura – scrive Latour – appare ora come una versione monca, semplificata, esageratamente moralistica, eccessivamente polemica, prematuramente politica dell’alterità del mondo a cui dobbiamo aprirci per non diventare pazzi – diciamo alienati – in massa. Per riassumerlo in una breve formula: agli occidentali e a coloro che li hanno imitati la natura ha reso il mondo inabilitabile”.
Possiamo andarcene? Cambiare negozio? No, è l’unico che abbiamo a disposizione. Come la Terra. E dobbiamo svuotarlo pagando di più. Ecco l’apocalisse, la rivelazione annunciata ai sapiens dalla modernità alla sua fine: ero il vostro paradiso impossibile. Ero l’illusione di un “mondo per voi” che ha obliato “il mondo in sé”, come direbbe il filosofo della fine Eugene Thacker, nel suo echeggiare un oblio dell’Essere heideggheriano nell’Antropocene. La “natura” come pura rappresentazione, oggetto di devozione estetica, indagine scientifica, sorgente inesauribile di “vita degna” per una sola specie, è il frutto più maturo della modernità “occidentale”. E il suo fallimento. La “Costituzione” dei moderni – come la chiama Latour – porta a compimento, normativizza, la Grande separazione tra La Terra e il suo ospite più ingombrante, con la sua cultura e la sua costituiva insaziabilità. Oggi questa “Costituzione” si svela come artificio, progetto culturale cresciuto sul fondamento illusorio della separazione.
Ecco la radicalità del pensiero di Latour: non si tratta solo di ridefinire o rivoluzionare assetti sociali, economici, geopolitici. Il sistema-terra sta dicendo alla nostra specie che non ha più un quadro stabile in cui collocare i suoi desideri di modernizzazione: “Malgrado tutte le critiche fatte a questo concetto, il prefisso antropo- applicato a un periodo geologico è il sintomo di una ripoliticizzazione di tutte le questioni planetarie”. Dove atterrare dunque? Nei suoi interventi degli ultimi anni, nel suo saggio più politico (a tratti un pamphlet) e nel recente Dove sono?, Latour prova a tirare la somme del suo lungo lavoro “decostruttivo” attraverso l’ingresso di un nuovo “attrattore politico” che altera il significato, fino quasi a svuotarlo, di quelli della tarda modernità (destra/sinistra, locale/globale). Questo attrattore è il Terrestre, “una potenza che agisce dappertutto contemporaneamente, ma che non ha un’unità. Politica ma non statuale. Essa è, letteralmente, atmosferica”. Da dove cominciare? Che fare? “Anzitutto, descrivere. Come potremmo infatti agire politicamente senza aver inventariato, sondato, misurato, centimetro per centimetro, essere animato per essere animato, ciò di cui è composto per noi il Terrestre?”.
Da qui – secondo Latour – la necessità e indifferibilità di “partire dal basso”, di affinare anzitutto “la rappresentazione dei paesaggi in cui si collocano le lotte geo-sociali. […] Perciò dobbiamo accettare di definire i terreni di vita come ciò da cui un terrestre dipende per la sua sopravvivenza e chiederci quali sono gli altri terrestri che si trovano a loro volta a dipendere da esso”.
Appare evidente che il “come orientarsi in politica” di Latour non può soddisfare chi si aspetti una “proposta politica” pronta all’uso. Si tratta piuttosto di un prontuario per immaginare l’inimmaginabile: l’uscita dalla modernità, che è un’uscita dal “mondo per noi”. Si tratta di una rivoluzione culturale, di una mutazione antropologica senza precedenti. Perché senza precedenti è la sfida di Gaia. Se questa è la scena non saranno i vecchi attori politici a poterla calcare: a cominciare dallo Stato, che non può essere caricato di “un peso troppo gravoso per esso”. A partire dalle Gifford lectures Latour insiste molto sulle parole “collettivi” e “negoziazioni”: i primi costituiscono l’insieme dei nuovi soggetti politici “atterrati”, né locali né globali; le seconde la via diplomatica per scendere a patti tra i Terrestri umani, e tra questi e i Terrestri non umani. Latour ha provato a tracciare la rotta verso questo mondo “impossibile”, insinuando più di un sospetto che sia l’unico possibile.