di Barbara Leone
«Tutti qui vedono scheletri e cadaveri. Per me è la vita». Queste parole di Romano Ukmar ( Trieste, 1919 – 1970) racchiudono perfettamente lo spirito della sua pittura che da una prima fase realista si orientò verso tendenze astratte, tuttavia sempre memori dell’iniziale realismo e per questo ricche di figure inquietanti e simboliche atte a governare lo spazio del quadro. È stato proprio il desiderio di indagare sull’evoluzione artistica di Ukmar il principale propulsore che ha dato vita alla mostra antologica a lui dedicata (villa Prinz), organizzata a quasi cinquant’anni dalla sua prematura scomparsa.
Eppure, ammirando i suoi quadri, ciò che emerge in prima battuta non è il mero sviluppo di uno stile artistico. Ciò che questa mostra davvero restituisce è un’istantanea dell’uomo che sta al-di-là dell’artista. Un uomo che non ha lasciato cenno alcuno sulla propria arte, ma i cui occhi profondi, ammiccanti da una fotografia in bianco e nero, sembrano più espressivi di tante parole. Lo sguardo penetrante di Ukmar, assieme ai segni che gli incidono il viso, svelano una storia fatta di combattimenti e tribolazioni in cui la pittura si è assunta l’onere di incanalare angosce e sofferenze, restituendo una parvenza di pace.
Per poter interpretare correttamente l’arte del pittore triestino è quindi necessario soffermarsi sulla sua storia di uomo prima che di artista. Romano Ukmar ha vissuto una vita breve ma molto intensa: arruolatosi come volontario nell’esercito italiano passerà in prima linea una delle più tragiche pagine nella storia della seconda guerra mondiale, la campagna di Russia. Con il battaglione di Borgo San Dalmazzo, sezione della Cuneense alpina, Ukmar parte alla volta del Caucaso, ritrovandosi invece a combattere in prima linea lungo il confine sul Don. Nonostante gli equipaggiamenti drammaticamente inadeguati, gli alpini permettono a molti connazionali di ripiegare dopo la breccia da parte del contingente russo nel dicembre del 1942, resistendo sulle loro posizioni ancora per un mese intero. Il prezzo da pagare è però altissimo: tre intere compagnie alpine vengono spazzate via e solamente un esiguo gruppo di uomini riesce a evitare la carneficina. Questi sono in grado di aprirsi un varco tra i militari e i partigiani russi e pur essendo privi di rifornimenti, armi e indumenti adeguati al clima rigidissimo dell’inverno sovietico, riescono miracolosamente a tornare in patria. Tra questi vi è anche il giovane Ukmar. Dopo l’8 settembre 1943, quando l’Italia si trova allo sbando, Ukmar mette il suo coraggio al servizio della Resistenza. Finita la guerra abbandona la carriera militare che si è costruito con tanto sudore, per dedicare le sue energie ad un lavoro umile come manovale nel porto di Trieste, che gli permetterà di guadagnarsi da vivere dignitosamente. È lui stesso a sceglierlo, rifiutando offerte di lavoro in ufficio e cariche più prestigiose in quanto non desiderava essere superiore a nessuno, capo di nessuno se non di sé stesso.
È facile capire come la fame, il terrore e il freddo abbiano segnato in maniera indissolubile la vita dell’artista, scampato alla morte solo grazie a un puro istinto di autoconservazione. Eppure, le crudeltà e le sofferenze conosciute sul campo di battaglia non intaccheranno la sua fiducia verso il prossimo e anzi lo porteranno a fare dell’Umanità tutta, un’umanità con la “U” maiuscola, il soggetto principale dei suoi quadri, come la dozzina di tele in mostra, esposte sulla base di criteri cronologici, ben esprime.
È proprio con un omaggio alla figura umana che prende il via tale piccola mostra antologica. Si tratta di alcuni fra i primi esercizi di disegno di Ukmar, frutto del suo talento innato nonché della frequentazione della Scuola Libera della Figura del Museo Revoltella. Ben presto l’artista volge verso uno stile più personale fatto di soggetti realistici con temi dal significato sociale. Da questi primi lavori Ukmar non otterrà alcun riconoscimento ma solo delle aspre critiche. In una piccola recensione alla sua prima mostra personale, il cronista locale bollò le sue opere come “clichet di una letteratura populista, ormai scontata”. Tuttavia, osservando nella complessità il suo lavoro, è chiaro che questa declinazione realista fu solo il punto di partenza di un percorso centrato sul binomio arte – impegno civile, il fil rouge di tutta la sua opera successiva.
All’inizio degli anni Sessanta, Ukmar si orienta verso una pittura astratta e materica, conscia delle contemporanee sperimentazioni di Burri, elaborando uno stile densamente cromatico con sfondi e cellule figurali fortemente in contrasto. La figura umana non può celarsi a lungo ed ecco che nel giro di qualche anno riemerge, segnando l’inizio alla fase più proficua della carriera artistica di Ukmar. Le sue personali esperienze legate alla guerra trovano qui un perfetto connubio con la matericità del periodo precedente: sabbia, reti metalliche, acrilici color ocra, bruciature sono gli strumenti ideali per dare vita a soggetti scheletrici antropomorfi. Questi ultimi esprimono l’empatia e la solidarietà di Ukmar verso coloro che come lui sono stati vittime di sofferenze, ma sembrano suggerire anche un interesse morfologico per il corpo umano, dove le ossa sono descritte con minuziosa precisione malgrado la loro spesso innaturale disposizione.
Dal 1965 fino alla tragica scomparsa, le tele si fanno sempre più numerose e sempre più cupe, forse una catarsi per liberarsi dall’ombra di un male incurabile. L’apprezzamento delle sue opere comincia finalmente ad arrivare, sommandosi a un originale componente inserito all’interno dei quadri: linee verticali che lacerano lo sfondo, riecheggianti le iniziali sperimentazioni di Barnett Newman, preludio alle sue famose “zip” (vedi Onement I del 1948). La somiglianza tuttavia è solo formale. Infatti, se l’intento di Newman è di creare una pittura dell’origine, priva di sfondo e di un’alternanza di piani, Ukmar mantiene senza dubbio la tradizionale suddivisione soggetto – sfondo. Le strisce sembrano piuttosto rappresentare una linea di confine posta sempre in prossimità dei soggetti raffigurati, quasi che questi ultimi stessero per valicare un punto di non ritorno.
Oltre alle tele, gli ultimi anni della sua attività sono rappresentati anche da due esempi di carboncino su carta anch’essi sintomatici della sua poetica. Servendosi del bianco e nero come nei primi ritratti, Ukmar realizza delle figure solitarie, ancora una volta caratterizzate da forme scheletriche e vaghe, le cui giunture meccaniche fanno pensare a esseri androidi e robotici. L’artista pare essersi servito di un utensile senza punta, capace di solcare la carta e di produrre dei geroglifici che non possono che richiamarsi ai primi ideogrammi della civiltà umana.
La mostra antologica di Romano Ukmar restituisce lo specchio di un artista poco noto al grande pubblico a causa della sua scomparsa precoce, proprio quando la sua arte stava maturando e l’ambiente artistico cittadino cominciava a cogliere la potenzialità e la profondità che la sua opera era in grado di offrire. Non a caso, Romano fu l’unico artista amatoriale a stuzzicare l’attenzione di un illustre storico dell’arte quale Decio Gioseffi, che recensirà positivamente le sue opere.
L’auspicio è quello di portare avanti un lavoro di approfondimento sulla figura e l’arte di Romano Ukmar, e il vicino centenario dalla sua nascita potrebbe esserne l’occasione, così da offrire alla città di Trieste uno scorcio del proprio recente passato culturale. Nel frattempo l’invito è quello di assaporare l’originalità dei suoi quadri e di tenere a mente ciò che Ukmar ha voluto ricordarci: la precarietà della vita e l’importanza di cogliere e celebrare la bellezza e la gioia racchiuse in ogni piccolo frammento di esistenza.