di Stefano Tieri
Macchine culturali: la cultura come qualcosa di prodotto, fabbricato, frutto di una catena di montaggio che possiede finalità ben precise e una direzione prestabilita. Un meccanismo pervasivo, evidente in ambito accademico ma che si manifesta, con forza uguale, nell’editoria, nel giornalismo, nella critica, nei cartelloni dei teatri, nelle sale cinematografiche, nei palinsesti televisivi e più in generale in ogni luogo deputato a dare spazio e a promuovere la così detta “cultura”.
Ma cosa intendiamo dire, quando parliamo di “cultura”? Basta mettere in risonanza questa parola – apparentemente neutra – con “macchina”, per chiarire un aspetto che in un primo momento potrebbe passare inosservato: la freddezza – qualcuno la chiamerebbe oggettività – di un meccanismo immune dalla fallacia umana, e quindi infallibile nella sua programmazione algoritmica. Come se all’uomo, programmatore di un codice rispondente a determinati criteri – questi niente affatto oggettivi – non si potesse addossare alcuna responsabilità etica: “è la procedura, bellezza! Inchinati alle indicazioni predisposte, disciplina il tuo prodotto culturale fino a farlo coincidere con quanto richiesto dalla macchina”.
Se da ogni parte si invoca – spesso in modo ingenuo – la cultura “libera”, la ricerca disinteressata da interessi economici o politici, è solo stando dall’altra parte della barricata che è possibile sentire sulla propria pelle gli effetti di tale macchina: in ambito accademico, dove la cultura aziendale ha ormai preso il sopravvento e lo spazio all’espressione soggettiva e al pensiero indipendente vengono fatti sottostare alla compilazione bibliografica (“Ingranaggi” di e.); nei luoghi dove la supposta cultura diventa mercato, le librerie-supermarket, dove si viene spesso colti da una nausea improvvisa, schiacciati tra un best seller (ritenuto migliore solo perché ha venduto di più) e l’ultimo saggio dell’intellettuale à la page che ci insegna com’è giusto pensare (“I ‘pasti nudi’ delle macchine culturali” di Andrea Muni); nel “mondo” della rete, dove apparenza e realtà invertono i propri ruoli ontologici e l’unico sapere “utile” diviene quello in grado di organizzare e capitalizzare enormi quantità di dati (“Nulla è vero tutto è permesso” di Ruben Salerno).
Come sottrarsi a una tale macchina? E sarà poi possibile farlo? Per iniziare a cercare delle soluzioni può essere utile affidarsi agli autori che, negli ultimi decenni, hanno riflettuto sulla macchina e la produzione di immagini, miti e pensieri (“Macchine e fughe impossibili. Proposte di lettura sulla produzione culturale” di Piero Rosso).