Malthus e la fame nel XXI secolo. Per quanto la Terra può ancora sopportarci tutti?

di Nicola Bellomo

Immagine libera di kai Stachowiak tratta da qui

Nonostante i tragici dati – purtroppo in continuo aumento negli ultimi anni – su povertà assoluta e relativa persino nel nostro Paese, non si può dire che la fame sia uno dei problemi principali del nostro Primo Mondo.

Ma la fame può davvero essere considerata un anacronismo? Certamente non lo è per coloro che vivono nelle zone meno sviluppate del pianeta, dove ogni anno muoiono milioni di individui per fame o malattie legate alla denutrizione. Si parla ultimamente nei paesi occidentali di interventi volti ad aumentare la nuove nascite e l’impatto demografico, ma ci rendiamo conto di cosa comporterebbe il ritorno in positivo delle nascite anche nei paesi più sviluppati? La Terra è un pianeta con limiti e confini, non è infinita. Inoltre, solo alcune zone del nostro pianeta sono veramente fertili per la coltivazione estesa di prodotti alimentari.

Questioni etico-morali impediscono però di porre artificialmente o autoritariamente seri freni alla crescita della popolazione. Alcuni credono che lo sviluppo scientifico porterà a tecnologie agricole e alimentari che permetteranno di sostenere la crescita esponenziale della popolazione. Ma possiamo sostenerla? Non è forse più corretto iniziare a chiedersi se il nostro pianeta ha davvero la possibilità, le risorse e gli spazi per ospitare ancora più gente?

La verità è che non abbiamo spazi sufficienti per produrre cibo sufficiente ad alimentare una popolazione che seguita a crescere in modo esponenziale. Non tutti gli spazi della Terra sono coltivabili e anche se per assurdo riuscissimo a rendere fertili persino i deserti, con una resa massima e un pieno sviluppo scientifico, una crescita demografica illimitata ci porterà comunque, presto o tardi, a una saturazione irreparabile. Ignorare questo problema equivale a essere passivi spettatori, e passeggeri, di un treno diretto a massima velocità verso un punto in cui i binari finiscono.

Smith e Malthus, alcuni storici errori di prospettiva dell’economia politica capitalista

Con la Ricchezza delle nazioni Smith ha dato inizio alla scuola classica dell’economia politica capitalista. Smith vi sostiene che le uniche fonti di lucro per un’economia fondata sull’accumulazione di capitale siano le attività capaci di “produrre” beni in più. Le uniche attività in questione si configurano quindi come agricoltura e industria. L’industria, grazie alle macchine, condurrà a una produzione sempre più massiva, istantanea e meno costosa in termini di tempo – valore (non avendo, come l’agricoltura, particolari problemi di stagionalità). Il commercio è visto da Smith solo come uno scambio e trasporto di capitali, che non aggiunge di per sé alcun valore, ma che è fondamentale per mettere in circolo i beni prodotti. Una estesa produzione garantisce estesi profitti, ma per garantire sia l’uno che l’altro è necessario produrre una grande quantità di beni (e quindi avere a disposizione un ampio numero di consumatori). Inoltre, più sono gli umani che abitano la terra, più ci sarà possibilità di manodopera, dunque una maggiore produttività potenziale. Si tratta senza dubbio di una visione cinica, in cui l’uomo comune è visto come strumento, e nutrimento, dell’industria. Quello tra industria e uomo è un rapporto di interdipendenza dal sapore hegeliano, in cui l’uno è al contempo padrone e schiavo dell’altro. Questa dottrina sarebbe perfetta, se non fosse per una banalissimo dato: alla base della produzione e della crescita economica smithiana c’è l’idea letteralmente impossibile di un’espansione eternamente positiva del mercato, e perciò della popolazione. Victor Hugo ha scritto ne L’uomo che ride: “È dell’inferno dei poveri che è fatto il paradiso dei ricchi”.

L’economista liberale inglese Thomas Malthus si era già posto, subito dopo Smith, a cavallo tra Sette e Ottocento questa questione. Egli scopre infatti che povertà e fame nel mondo sono dovute alla pressione demografica, e che sono legate in particolare al sottile rapporto tra popolazione e risorse naturali disponibili. La crescita della popolazione sarebbe secondo Malthus geometrica, mentre quella dei mezzi di sussistenza sarebbe aritmetica. Di conseguenza, per Malthus è inevitabile che alla crescita incontrollata della popolazione corrisponda un immiserimento globale delle condizioni di vita. Egli pone infatti un serio problema al capitalismo (che sarà risolto, col trucco, solo dall’imperialismo), ovvero si accorge che esso non è in grado di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori: sia a causa della sproporzione tra crescita demografica e capacità di consumo, sia perché – a rovescio – i redditi della classe salariata non sono in grado di assorbire la crescente quantità di beni messa sul mercato dal nuovo sistema di produzione industriale.

L’esaurirsi della (temporanea) soluzione imperialista e i suoi vicoli ciechi

Le ultime grandi carestie in Europa Occidentale risalgono alla metà XIX secolo (se eccettuiamo quelli novecentesche legate ai conflitti mondiali, oltre che quelle sovietica e americana degli anni Trenta). Ad arrestare definitivamente la fame in Occidente è stato sostanzialmente il benessere portato dall’affermarsi progressivo dell’imperialismo. La specificità del nuovo colonialismo del XIX secolo non è legata infatti al semplice e crescente bisogno di risorse naturali, umane e commerciali, ma anche e soprattutto alla necessità politica interna – da parte dei paesi europei – di stabilizzare le condizioni di vita della nascente (e bellicosa) classe operaia europea con dei surplus economici che non fossero ricavati direttamente a sue spese.

L’imperialismo non prevedeva solo l’occupazione di nuove terre (Africa o Sud-Est asiatico) a fini di estensione territoriale e apertura forzosa di nuovi mercati e monopoli. Esso necessitava anche e soprattutto di uno sfruttamento intensivo di risorse (materie prime e manodopera a basso costo), che alleviasse le condizioni della classe operaia nella madrepatrie europea. Anche se si parla spesso di come l’imperialismo abbia rappresentato un effetto necessario del divenire globale del marcato mondiale, è quanto meno ipocrita (oltre che anacronistico) sostenere che i paesi in via di sviluppo ne abbiano mai beneficiato sotto alcuna forma. L’Occidente ha spadroneggiato per due secoli su tutto l’orbe terracqueo: è illogico – oltre che ipocrita – parlare di apertura di mercati, sarebbe meglio a questo proposito usare l’espressione creazione di serbatoi.

Con il crollo degli imperi coloniali il lupo ha perso il pelo ma non il vizio. De iure, gli Stati nati dalle colonie sono quasi tutti divenuti indipendenti, de facto sono ancora in buona parte alla completa mercé dell’Occidente. Alcuni Paesi, come India e Cina, sono stati più fortunati e abili di altri a passare dalla lama al manico del coltello coloniale. Questi due giganti sono infatti riusciti nell’ultimo secolo a liberarsi, anche se non completamente, del peso dell’Occidente e a proporre un loro sistema economico-commerciale competitivo, arrivando – la Cina in particolare – a concepire a propria volta nuove forme, sebbene molto diverse da quella occidentale, di imperialismo.

Come si ripercuote tutto questo nei fatti? La popolazione delle potenze del G7 (Usa, Francia, Regno Unito, Germania, Canada, Italia, Giappone) non arriva al 10% (circa 772 milioni) della popolazione mondiale (8.045 miliardi). Tuttavia, questo 10% possiede ben il 62% della ricchezza mondiale. L’immiserimento progressivo della popolazione profetizzato da Malthus è quanto mai reale: perché il 10% della popolazione possa vivere in condizioni di agiatezza, il 90% è costretto a patire la fame o condizioni di vita non ottimali, nonostante le disponibilità delle terre che questo 90% occupa. L’Occidente è un’isola economica e sociale, le cui classi abbienti godono di un benessere surreale a spese di tutti gli altri. Lo stile di vita che è permesso a un cittadino non povero dei G7, è il doppio frutto dello sfruttamento interno al Primo Mondo, e della miseria imposta alle zone in via di sviluppo piegate ai nostri interessi coloniali. Messa in numeri, 772.905.147 persone dispongono mediamente di un benessere estremo, costruito sulla miseria della restante parte della popolazione mondiale: 7.272.406.300 persone. Anche se, ovviamente, ci sono ricchi e poveri in tutti gli stati, e persino in tutte le famiglie, la sproporzione di questi numeri credo renda comunque bene l’idea dello squilibrio grottesco in cui ci troviamo.

Conseguenze politiche della de-popolazione. Il caso storico della peste del Trecento

Una situazione simile, anche se su scala geografica limitata e non mondiale, è stata quella della Peste del ‘300. Un periodo durante il quale la popolazione europea è passata di colpo da settanta a cinquanta milioni di abitanti, decimandosi in pochissimo tempo di quasi un terzo. Il brusco crollo demografico ha provocato inizialmente un parallelo e disastroso crollo economico: terre coltivate abbandonate, diminuzione dei salari, crisi di artigianato della manifattura (pseudo-industria) e del commercio. Le conseguenze non si limitarono poi solo a una questione economica, ma anche psicologica. La spaventosa quantità di morti provocò un continuo stato di ansia e paranoia, fomentando il fanatismo religioso già diffuso nella società tardo-medioevale. Non perché mancasse la popolazione le guerre si fermarono. I sovrani – data la scarsità di risorse – spesso non avevano la possibilità di pagare i soldati di tasca propria, dunque le campagne pullulavano di soldati affamati pronti al saccheggio, alle razzie e all’estorsione nei confronti dei contadini. Le condizioni di miseria in cui gran parte della popolazione si ritrovava provocò lo scoppio di rivolte: il fenomeno della Jacquerie francese, il tumulto dei Ciompi a Firenze, la rivolta dei Lollardi e diversi disordini nelle Fiandre, Tyler in Inghilterra. Rivolte che, paradossalmente, dopo l’appianarsi della Peste, ebbero un iniziale successo proprio grazie al maggiore potere contrattuale acquisito dai lavoratori, in virtù del crollo di manodopera provocato dalle morti della peste. Questo precedente storico ci fa riflettere su come la de-popolazione potrebbe rivelarsi uno strumento molto utile per le lotte sociali dei poveri contro i ricchi, i quali potrebbero trovarsi in ulteriore inferiorità numerica senza nemmeno poter godere del vastissimo esercito industriale di riserva, con cui sostituire i rivoltosi e gli scioperati, offertogli oggi dalla sovrappopolazione.

La peste è stata un fenomeno di de-popolazione involontario, ma una de-popolazione indotta non avrebbe conseguenze poi troppo diverse. È difficile perciò aspettarsi dai potenti della terra una de-popolazione pianificata del pianeta, quando i precedenti storici riguardanti i rischi di un effetto boomerang sul loro potere sono così alti.

Che fare? Esiste una soluzione?

I dati lo dimostrano: una crescita demografica esponenziale è deleteria per il nostro pianeta. Arriverà il momento in cui non saremo più in grado di sfamare buona parte della popolazione mondiale – già adesso non siamo in grado di sfamarne una grossa fetta. Lo squilibrio pauperistico è matematicamente destinato a farsi sempre più profondo.

La prima idea che viene in mente è quella di una de-popolazione forzata. Tuttavia, oltre a produrre gravi problemi etici, tale soluzione pone la questione di chi mai potrebbe accollarsi, e imporre su scala mondiale, un simile progetto. È difficile che in uno Stato occidentale, dominante o dominato che sia, ciò possa mai accadere: i governi continuano a incitare i propri cittadini a fare più figli, sotto la velata scusa dell’invecchiamento della popolazione, con l’unico scopo reale di impedire che il consumo di beni si riduca. Le élites economiche non ne trarrebbero alcun vantaggio (per il discorso smithiano di cui sopra), mentre il popolo – lo abbiamo potuto osservare nell’unico tentativo finora conosciuto di limitazione demografica, ovvero quello cinese degli anni ’80, ’90 e ’00, la famosa politica del figlio unico – accetta con estrema difficoltà una soluzione che entra così a gamba tesa nella libertà di scelta individuale e delle famiglie.

Nonostante tutto ciò che abbiamo elencato, se un politico x osasse proporre una de-popolazione forzata sarebbe è probabile che sarebbe immediatamente additato come un mostro. Se però per assurdo si decidesse realmente di attuare un simile progetto, con quale criterio si dovrebbe procedere? Selezionare i ricchi, preferire i poveri, un po’ e un po’? La verità è che porre la questione in questo modo non ha alcun senso. Soluzioni che prevedono una riduzione drastica della popolazione provocherebbero in ogni caso un terremoto nella società come la conosciamo oggi. Crollerebbero tutti gli equilibri. La de-popolazione forzata provocherebbe solo soluzioni temporanee, o talmente drastiche da sfiorare la distopia.

Una proposta (ir)realistica

Una de-popolazione forzata provocherebbe, insomma, danni maggiori ai risultati. Ma esiste un’alternativa? Nell’immediato, oltre che cercare di incentivare la riduzione della popolazione, ridurre lo sfruttamento delle risorse e il consumo di beni, non sembra si possa fare molto di più. Potremmo anche proporre la scelta dell’estinzione volontaria, una sorta di eutanasia del genere umano. Sarebbe anche una scelta valida e alternativa a tutte quelle passate in rassegna, ma chi mai accetterebbe? E se provassimo in conclusione un approccio fantascientifico? Sarebbe irrealistico proporre un’espansione nello spazio?

Nel lungo termine la specie umana potrebbe rischiare l’estinzione per diverse cause, sia antropologiche che naturali. L’insostenibilità della nostra sovrappopolazione potrebbe essere una di queste. Il prolungamento della nostra civiltà in posti altri rispetto alla Terra potrebbe salvaguardare l’estinzione dell’umanità. Al momento chiamiamo, in tono quasi dispregiativo, fantascienza tutto ciò che riguarda la navigazione nello spazio. Tuttavia l’opzione pare essere sul tavolo di tutti i progetti spaziali dei principali stati. Stephen Hawking ha previsto che la razza umana si estinguerà entro mille anni, se entro duecento anni non inizierà la colonizzazione spaziale. Lo stesso direttore della NASA ha annunciato, già nel 2005, che la colonizzazione spaziale deve essere l’obiettivo ultimo dell’esplorazione cosmica. L’imprenditore Elon Musk pure si sta dedicando a progetti di colonizzazione planetaria, come piano di riserva per l’umanità. Si tratta però, fuor di fantascienza, di piani che in ogni caso non andrebbero affatto a ridurre, ma anzi ad accentuare, le disuguaglianze della Terra.

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