di Morena Pinto
Il TACT, festival artistico di respiro internazionale alla sua ottava edizione nel capoluogo triestino, si propaga per la prima volta negli spazi abitati per farsi ammirare nella sua ecletticità: spettacoli teatrali, installazioni artistiche, workshop partecipati e circensi e parolieri incantatori.
La decisione di soffermarmi con lo sguardo su alcune di queste performance non è solo questione di tempo (sempre troppo poco), ma è una richiesta sottile del mantra tematico del Festival “Scegliere la strada”, che mi riporta alla necessità di scegliere per selezionare e capire e analizzare e condividere per forse capire meglio.
Dagli occhi perturbanti ma giocosi di quella faccia triangolare a corredo della locandina del TACT, Festival Internazionale delle Arti Performative a Trieste, si evince una pupilla rotonda che può ricordare (a saperle le intenzioni del grafico Daniele Pampanelli!) un punto di riferimento per orientarsi meglio.
Il quadro delineato non entra nemmeno in contrasto con il tema di quest’edizione del Festival: “Scegliere la strada”. Una mancanza di rigore, un’omissione di TACT(o) nel guidarci verso la diritta via, (sono confusa! ma se non sappiamo dove stiamo andando?) ci porta, grazie alla collaborazione dell’Hangar Teatri, fino a San Giacomo: un rione triestino semi-centrale in cui il Festival ha preso vita e anima dal 30 agosto al 4 settembre 2021.
Fin dalla prima serata, le finestre degli ascoltatori rionali sull’attenti – affacciati ai loro balconi e alle finestrelle di Piazza Puecher – si aprivano in un ordine graduale e ben distinto, quasi a riprendere la danza del fuoco del magico Anton Lumi.
L’ebrezza dei movimenti di questo giocoliere del fuoco si rispecchiavano in un certo sublime del mondo, quasi come se le continue accensioni virulente assomigliassero allo spirito di San Giacomo: accaldato e intraprendente.
Il fuggi fuggi generale che anima quotidianamente il rione si è concentrato in pochi giorni a ridosso delle piazze principali quali Campo San Giacomo e Piazza Puecher, come se fosse necessario – e lo è per davvero – un momento di raccoglimento collettivo in cui ri-guardarsi negli occhi e ritrovar-si, in strada e con le strade degli altri.
Il groviglio di emozioni che ha caratterizzato il pathos embrionale di questo quartiere si è accumulato, infine, con una forza irruente nel concorso di poetry slam organizzato da Zufzone, in cui anche le grida dei bambini – sgarbate e fuorilugo – sembravano far parte di quei timbri singolari dei poeti narranti: voci intense e retrospettive, in cerca di relazione come un “cazzotto immobile”: ossimoro emblematico e destabilizzante partorito dal vincitore della gara internazionale di poetry slam M’sieur13.
E a ben guardare “i bambini e le bambine di San Giacomo sono diversi”. Diversi? Non è forse il termine più giusto, ma dobbiamo adattarci al politically correct? O vince ancora la carica della spontaneità?
In quelle piazze, con i loro palloni sgangherati e un entusiasmo smodato, con quei piedi frenetici dai movimenti furtivi, i salti infantili (e forse, in fondo, più maturi di noi) fanno rinsavire le persone che si abbeverano all’ultimo spritz del tramonto, prima di accomodarsi al mitico “Old London Pub” ed avere la possibilità di visualizzare con i loro occhi quel TACT urbano di vicinanza nella propria città.