di Andrea Muni
(Immagine di Marco Guglielmelli)
[L’industrialismo rappresenta] una continua lotta, un processo initerrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione […]. Ma ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone il nuovo contro il vecchio, non è sempre stato forse – per un certo tempo – il risultato di una compressione “meccanica”? […] Finora tutti i mutamenti del modo di essere e di vivere sono avvenuti per coercizione brutale, cioè attraverso il dominio di un gruppo sociale su tutte le forze produttive della società: la selezione o “educazione” dell’uomo adatto ai nuovi tipi di civiltà, cioè alle nuove forme di produzione e di lavoro, è avvenuta con l’impiego di brutalità inaudite, gettando nell’inferno delle sottoclassi i refrattari e i deboli, o eliminandoli del tutto.
(A. Gramsci, “Americanismo e fordismo”- 1934, in Quaderni del carcere, tomo III)
Dopo la morte di Lorenzo Parrelli (come dopo ogni altra volta che un ragazzo muore a “scuola”) si sono succedute febbrilmente accorate e sacrosante reazioni contro il PCTO, l’attuale nome dell’Alternanza scuola/lavoro. Su Lorenzo è caduta una putrella, una trave di metallo, che lo ha ucciso durante il suo ultimo giorno di stage. Tranquilli, bimbi e bimbe di Draghi, ovviamente – per lavorare in tutta sicurezza – aveva il Green Pass. Il grottesco della realtà supera ormai ogni fantasia possibile.
Mi ha stupito leggere sui social molte persone intelligenti accarezzare l’idea che la scuola non debba avere a che fare col lavoro, con l’avviamento al lavoro, che debba essere piuttosto un luogo di conoscenze “pure”. Al di là di un certo classismo e intellettualismo che intravvedo in questi discorsi, quello che mi chiedo è se non siano essi stessi il sintomo delle recidivanti rimozioni a cui ci sta costringendo la dittatura neoliberale a volto scoperto in cui viviamo ormai da anni. Sul tema del lavoro siamo poi talmente lobotomizzati da considerare folli, o peggio dei pericolosi estremisti, quei pochi che ancora lottano per dissotterrare e riportare nel discorso corrente le inquietanti rimozioni che viviamo rispetto all’intensificarsi quotidiano dello sfruttamento del lavoro nel nostro Paese.
Lorenzo non frequentava una scuola statale, ma uno dei tanti corsi di formazione professionale che alternano strutturalmente studio e lavoro, che per altro afferiscono a privati o alle Regioni (non allo Stato). In ogni caso, va benissimo che i giovani siano avviati al lavoro. Il problema non è che non devono imparare a lavorare. Il punto è che la scuola dovrebbe educarli a un rapporto sano e a trecentosessanta gradi con il lavoro, non educarli allo sfruttamento. Dovrebbe trasmettere un senso giusto, e una percezione corretta, di cosa significa lavorare e di cosa è il lavoro nell’economia di un’esistenza.
“Educare al lavoro“ innanzitutto non può che essere insegnare ai ragazzi – a tutti (dai CFP al liceo classico) – i propri diritti di futuri lavoratori; insegnare loro quotidianamente come e perché il mondo attuale – specialmente sotto questa angolatura – è letteralmente distopico, un puro orrore. Ma ovviamente osare avventurarsi in quest’operazione “estremista” rischia di creare non pochi problemi anche ai prof. più coraggiosi e con maggiore esperienza (figuriamo ai giovani supplenti precari). La scuola infatti è un’istituzione, e nelle attuali condizioni politico-economiche il suo scopo ultimo non è altro che quello di disciplinare i corpi e iniettarli di discorsi provenienti dagli apparati ideologici più profondi e potenti dello Stato neoliberale.
La scuola dovrebbe impegnare tutte le proprie energie per costruire un mondo in cui un giovane che conosce i propri diritti, e le norme di sicurezza, viene premiato se ne denuncia l’assenza o la violazione in una delle strutture in cui fa l’apprendistato (o nell’azienda dove è neo-assunto). Il PCTO – come tutte le altre forme di avviamento al lavoro – potrebbe essere una splendida occasione per far sì che la scuola sorvegli un mondo del lavoro che è ormai sfacciatamente una fucina di sfruttamento selvaggio e abbrutimento intensivo. E dobbiamo smetterla di dire che, siccome è così per tutti, siccome le cose ormai vanno così, allora va bene: No! Le cose non vanno vanno bene! Non vanno bene per niente.
La scuola non deve (come sta facendo) insegnare a diventare imprenditori e start-upper, non deve insegnare ai ragazzi ad abituarsi fin da subito a sfruttamento e vessazioni, deve invece insegnare ai lavoratori di domani i loro diritti (soprattutto ai meno qualificati); offrire strumenti per tutelarsi di fronte allo sfruttamento, allenare i giovani a riconoscerlo. La scuola non sta fallendo nell’insegnare ai ragazzi i propri doveri: sta fallendo nell’insegnare ai lavoratori di domani i loro diritti. Il rifiuto dei doveri e delle regole di cui ci lamenta tanto nei giovani potrebbe essere strettamente legato, anche se in modo sotterraneo, alla percezione che i loro “diritti” non sono niente di reale, di concreto; che i loro “diritti” sono solo teorici, …. perché allora non dovrebbero essere così anche le loro “regole”?
Ai ragazzi dei tecnici e dei professionali spesso viene fatta in cinque minuti la lezioncina scialba e stucchevole su sicurezza e diritto del lavoro, e poi via a sorbirsi incontri online con presunti “esperti” che li fomentano a diventare imprenditori di se stessi. Molti ragazzi finiscono a fare qualche settimana all’anno in “azienda”, dove spesso non si fa assolutamente nulla – oppure vengono spediti a sgobbare in fabbrica, ne supermercati o nei ristoranti, non pagati e già educati soltanto a farsi sfruttare senza rompere troppo i coglioni. Gli anni di pandemia -ci hanno regalato invece le “simulazioni di lavoro in azienda”, svolte comodamente a scuola, o in dad, e coordinate dagli Steve Jobs de’noantri (presunti esperti di imprenditoria locale, invitati a fare lo spettacolino della persona realizzata che insegna ai ragazzi come stare al mondo e a fare soldi, magari in maniera equo-solidale e rigorosamente green).
Come è possibile che un ragazzo, a scuola, si senta dire: “devi sapere dove sarai tra cinque anni, sennò io nella mia azienda non ti prendo”? Come è possibile che a scuola passi continuamente il messaggio che al lavoro “bisogna pedalare e non rompere i coglioni”, che “si può essere se stessi, ma ci vuole bella presenza e cura della propria persona”? Come aspettarsi che poi i ragazzi non ritengano una balla inutile e priva di ogni valore la “lezioncina” sui diritti? Fino a che la scuola, a partire dai tanti eroici compagni docenti che vi combattono ogni giorno, non sarà in grado di educare a questi diritti e vigilare su di essi, non avremo la minima speranza: vedremo sempre più gente che non capisce nulla quello che gli succede attorno – compresi quelli che pensano che tutti i ragazzi della scuola siano i fighetti dei licei “bene” della città, a cui non spetta quella cosa “sporca” che è il lavoro manuale sotto padrone. E invece in questa faccenda del PCTO (e dei CFP) sono proprio i ragazzi meno “istruiti”, quelli meno “importanti”, a essere i protagonisti, a contare di più. In questa battaglia di civiltà è in gioco il futuro di tutti quei ragazzi che non andranno all’università, di tutti quei giovani che hanno poco tempo per imparare almeno che lo sfruttamento a cui sono destinati non è normale.
Se non insegniamo noi (“adulti”) ai ragazzi un modo per riconoscere e combattere questo sfruttamento, se non lo facciamo proprio perché noi stessi ci sforziamo continuamente di rimuoverlo (perché ci fa troppo soffrire) – se non riusciamo a vincere questa doppia rimozione, allora purtroppo siamo involontariamente complici della pedagogia dello sfruttamento a cui i ragazzi sono sottoposti.
Per molti ragazzi non particolarmente istruiti il lavoro manuale, fin da giovanissimi, compare nella vita come qualcosa che non piace, ma che si impara a fare bene, e con cui a volte addirittura si trova un’agrodolce forma di “convivenza”. Il punto, per tutti i lavoratori, è piuttosto il “come“ del lavoro. Il “come“ del lavoro è oggi la cosa insostenibile, intollerabile: si muore (3/4 al giorno), ci si ferisce (una persona molto cara sta lottando da mesi per non perdere l’uso di un dito mozzato in fabbrica, per dire), si è costretti continuamente a fare di più, più veloce, oppure – ove non sia più possibile aumentare la “velocità” – si ricevono pressioni continue per accollarsi straordinari, servizi aggiuntivi, per migliorare la propria “presenza” e “gradevolezza” estetica, per raffinare la propria prosternazione di fronte al cliente (ricordo ancora che nel mansionario del lavoro che ho svolto per dodici anni figurava l’obbligo di “salutare per primi il cliente”, e di “mostrarsi sorridenti”).
Non chiudere gli occhi, trova almeno la forza di riderne
Non si tratta di abolire il PCTO, ma letteralmente di sovvertirlo, di trasformarlo davvero in una palestra grazie a cui allenare i ragazzi a riconoscere, denunciare e combattere lo sfruttamento. Non sono sicuro però che l’Europa ci darebbe gli stessi fondi per questo ben più nobile scopo, perché non è questo ciò che interessa dalle parti della Commissione (purtroppo lo sappiamo bene).
Non credo che siamo ancora riusciti a misurare con esattezza l’ampiezza e la profondità delle rimozioni, delle contraddizioni, in cui è impigliata buona parte di coloro che vorrebbero ancora dirsi “di sinistra” senza avere il coraggio di affrontare di petto questi problemi. Certo, per riformare il PCTO, bisognerebbe riformare la scuola, il lavoro, l’intera società… Ma da qualche parte bisognerà pur cominciare, no?
Per esempio si potrebbe partire dalla denuncia della vera e propria teologia auto-imprenditoriale che, spacciata per laboratori, formazione, PCTO, orientamento, viene propalata nelle scuole. Questa è precisamente una delle tante cose che rimuoviamo (o semplicemente ignoriamo). In questi anni ho sentito di tutto, veramente di tutto, ma il basso continuo di questi interventi “formativi” è letteralmente la criminalizzazione di ogni istinto, pulsione o desiderio che non rientrino nell’ambizione, nel lavorismo, nell’essere sempre impegnati, attivi, assorbiti in qualcosa di (capitalisticamente) produttivo.
Per una persona che ha lavorato tutta la vita su Foucault sono tempi molto duri: è dura vedere l’ultimo step dello sfruttamento neoliberale letteralmente insegnato a scuola; vedere la più recente e subdola torsione della violenza capitalista compiere indisturbata la sua nuova, ulteriore presa in carico della vita e dei desideri di ognuno di noi.
Un’operazione che si svolge in piena luce e nel silenzio più totale (quando non col plauso) di tutti coloro che un tempo credevamo avrebbero combattuto questa distopica deriva che è ormai il nostro presente: partiti, sindacati, stampa e cultura pseudo-progressiste. Non c’è bisogno di ordire “complotti” quando hai già in mano le chiavi (istituzioni, potere economico/amministrativo, strumenti coercitivi) per plasmare la realtà, la società, gli individui, i desideri. Tutto accade in piena luce, tutti lo vedono: il fatto è semplicemente che nessuno crede più che si possa fare qualcosa per opporvisi. E allora si rimuove.
In pochissimi (a parte Althusser) hanno preso sul serio Lacan quando diceva che la realtà è un discorso dominante, e che il reale non è affatto un suo sinonimo, bensì la dimensione da cui la realtà stessa (intesa come discorso dominante) scaturisce. Concetti difficili, certo: ma non perché troppo teorici, quanto piuttosto perché ci interpellano vertiginosamente riguardo a dove siamo, ci interrogano sul nostro reale posto nei discorsi e nella realtà dominanti.
L’ideologia, diceva Althusser, non è nelle idee, non è “nella testa”, è prima di tutto in quello che si fa, nei rituali e nelle pratiche in cui respiriamo e ci muoviamo. È nel reale. Vederla, saperla, sentirla prenderci allo stomaco, questa ideologia, è un’esperienza che si fa sempre e soltanto nell’orrore. Lo stesso che proviamo nel leggere l’ennesima notizia di un ragazzo morto durante il PCTO, o di Luana ingoiata da un orditoio appositamente manomesso per aumentare (di poco!) i tempi di produzione. Sì, l‘ideologia (neoliberale) si palesa nell’orrore, in esperienze che collimano col panico, con un senso di amputazione e impotenza (come la scena di Arancia meccanica, in cui Alex viene “ricondizionato” attraverso l’osservazione coatta di immagini traumatiche).
Ma questo non potrà continuare a essere per sempre un buon motivo per non svegliarsi, per non lottare, per rimuovere che – quando chiudiamo gli occhi – il buio in cui ci rifugiamo, non è che il dietro del nostre palpebre. L’unica grande speranza è che spesso, li ho visti più di una volta, mentre si tenta di fargli il lavaggio del cervello con queste stronzate autoimprenditoriali, i ragazzi ridono…