di Michel Surya
(traduzione di Andrea Muni)
Ovunque e da sempre la gente nutre un certo riguardo per le convenzioni sociali, gli scrittori spesso non meno di chiunque altro. Non è questo il caso di Bataille, che pare consapevole – anche se forse solo in parte – di quanto Le blue du ciel sia contrario a tali convenzioni, di quanto esso sia « sconveniente » in quel modo estremo che Blanchot attribuisce ai libri di Sade. Allo stesso tempo, però, Bataille è anche davvero un tipo di persona che non si rende conto fino in fondo della dimensione scandalosa delle proprie opere. Qualcuno che, sottomesso a pensieri che eccedono e sorvolano ciò che è destinato ad apparire (di un uomo, di una vita), se ne sente incolpevole al punto da aspettarsi che lo si scagioni. Un tratto tra i più singolari di quelli riconosciuti al suo carattere: Bataille mette in scena degli orrori, se ne fa testimone, non prova nemmeno a nascondere che è proprio da lui che tali orrori sono nati; non dubita un istante di doverli rappresentare affinché non se ne ignori nulla, e affinché non si possa ignorare nulla dell’orrore che ciascuno porta in sé, che la vita e la storia portano in sé – un orrore che non può che essere compito della letteratura mostrare. Un esempio rimarchevole d’arte e di idiozia, intesa come singolarità e alla maniera di Dostoevskij, alla cui libertà quella di Bataille deve molto – in particolare a quella esibita, tra gli altri, nelle Memorie del sottosuolo.
Nella Prefazione a Le blue du ciel (1957), riferendosi al romanzo pubblicato sotto pseudonimo ventidue anni prima, Bataille parla di un «momento di rabbia, senza il quale il suo autore sarebbe rimasto cieco » rispetto alle proprie «possibilità eccessive». Bataille non precisa la natura di questo eccesso, né chi (o cosa) le menzionate possibilità abbiano affettivamente ecceduto. Ma poiché in questo romanzo l’autore non indietreggia di fronte a nessuna delle proprie, né di fronte alla necessità che avverte di rappresentarle, si può dire quantomeno che il suo romanzo ecceda le possibilità della lettura (o almeno quelle in cui la lettura, e i lettori, versavano nel 1957). É a causa di questo eccesso che il romanzo divide e repelle: esso allontana coloro che ritengono «la prova soffocante, impossibile» di questa rabbia, di questo momento di rabbia, indegna di appartenere alla letteratura (o per lo meno alla letteratura di cui si accontentano).
La Prefazione riporta questa frase impeccabile, che suona quasi come una sentenza: «Perché attardarci su dei libri a cui l’autore, palesemente, non è stato costretto?». Chi potrebbe non trovare perfetta questa frase, capace di dire quello che dev’essere, e dovrebbe essere sempre nel suo principio, la letteratura per essere all’altezza di se stessa? Eppure, un tale principio (di cui Bataille scrive «ho voluto formularlo. Rinuncio a giustificarlo») non è poi così affidabile, può anzi facilmente trarre in inganno: quanti infatti potrebbero dire, in perfetto accordo con questo principio, che si sono sentiti costretti a scrivere i propri libri, e che tali libri devono essere letti affinché un tale principio viva? Tutti gli scrittori, come Bataille (che però ha scritto davvero dei libri mostruosi e irrespirabili, tra cui Le blue du ciel), si credono costretti a scrivere i propri libri – che spesso, in vero, non hanno nulla di mostruoso, né di irrespirabile. Per fare un torto al proprio «torto», Bataille prosegue allora con l’enumerazione dei libri che verificherebbero questo principio che egli enuncia ma non spiega: Cime tempestose, Il processo, La ricerca del tempo perduto, Il rosso e il nero, Franval (Sade), La condanna a morte (Blanchot), Sarrazine (Balzac), L’Idiota, il libro di Dostoïevski più amato da Bataille insieme alle Memorie del sottosuolo. È una lista che taglia corto. Non basta scrivere per essere all’altezza della costrizione a cui deve giungere la letteratura per essere giustificabile. È necessario che scrivere costi. Che costi tutto, se del caso. Un’altro dettaglio passato forse troppo inosservato: Bataille – dopo essersi a lungo rifiutato di riconoscerlo (ed essendosi anzi di fatto comportato per più di un ventennio come se non esistesse) – mostra nel 1957 una considerevole fiducia in questo libro uscito ventidue anni prima, che ora la sua tardiva Prefazione giustifica aprés coup quasi con una sorta di presunzione.
Le prefazioni (premesse, ecc.) di Bataille ai propri libri sono qualcosa di stupefacente. Se è normale prefazionare un proprio saggio, e infatti Bataille se li (auto)prefaziona praticamente tutti, a quale scopo – e attraverso quale gesto – scrivere la prefazione di un proprio romanzo o racconto? La prefazione a Madame Edwarda è la più particolare, la più lunga e la più bizzarra di tutte. Una prefazione che egli pone sotto gli auspici di Hegel, auspici impossibili che invocano la speciale forza di porsi all’altezza dell’opera della morte. La seguente epigrafe, contenuta nella Prefazione a Madame Edwarda (scritta anche essa tardivamente nel 1956) avrebbe potuto benissimo essere inclusa in quella del 1957 a Le blue du ciel.
Ciò che il misticismo non ha potuto dire (poiché, al momento di dirlo, viene meno), è detto piuttosto dall’erotismo: dio non è nulla, se non è il superamento di dio in ogni senso possibile, nel senso dell’essere volgare, in quello dell’orrore e della sozzura; e infine, nel senso di niente. (Prefazione a Madame Edwarda, G. Bataille)
Ne Le blue di ciel infatti, Troppmann (il protagonista) non si pronuncia contro dio, contro la sua esistenza, almeno non essenzialmente, salvo affermare che per non morire dio deve portarsi egli stesso all’altezza dell’opera della morte – volgarità, orrore, sozzura. Anche Dirty (una delle protagoniste femminili) lo afferma mentre è distesa sul ventre lungo la navata di una chiesa viennese: «Posso prostrarmi di fronte a Lui, solo se credo che non esista» – chissà, al limite, forse per resuscitarlo. Una lezione tratta da Sade, ma riletta attraverso Klossowski (il quale sosteneva che, fino a Sade, dio non era ancora mai stato abbastanza dio); un Sade e un Klossowski rivisitati da Bataille.
Cosa curiosa, che produce un raddoppiamento supplementare: nel 1956 Bataille firma la Prefazione a Madame Edwarda col proprio nome, ma conserva come autore del romanzo lo psudonimo Pierre Angelique (che aveva usato nelle prime edizioni clandestine del libro tra il ’41 e il ’45). L’anno dopo si comporterà diversamente con Le blue du ciel, di cui si assumerà invece pubblicamente la paternità. Possiamo concluderne che Bataille (o il suo editore Pauvert) ritenessero più «scandaloso» Madame Edwarda de Le blue du ciel ? Sottile rilancio o astuto escamotage, ciò che importa – in ogni caso – è che il nome dell’autore conti meno di ciò che il libro mette in gioco.
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Le blue du ciel (1935) – anche se la sua pubblicazione tardiva potrebbe trarre in inganno – appartiene a un momento della storia letteraria di Bataille che è di poco successivo a Storia dell’occhio (1928). Nonostante la prossimità cronologica, i due romanzi sono però profondamenti differenti. Storia dell’occhio è certamente anch’esso mostruoso, sconvolgente, rappresenta cose che soltanto Sade ha messo in scena prima, ma è anche un libro «felice», a tratti giocoso. Un libro in cui non si rispetta nulla, dove si è sacrileghi fino all’eccesso, e in cui dall’inizio alla fine gioca ancora una specie di gioia, quasi infantile, che invece scompare del tutto ne Le blue du ciel. Qui infatti tutto è aspro, superficiale, violento. Sporco, Dirty, il nome di una delle co-protagoniste. Tutto si avvolge nell’incubo attraverso cui si rifugge il reale, o si crede di riuscirvi. Incubo che in fondo non è altro che una forma ripetuta, raddoppiata, del reale stesso; un reale da cui non si può scappare, da cui ci si accorge rapidamente non esserci via d’uscita. Un orrore. La folle, sacrilega, scabrosa ilarità di Storia dell’occhio è perduta – e non tornerà mai più.
Le blue du ciel rappresenta però un passaggio, una trasformazione insieme ilare e mostruosa, nello stile di Bataille: un nuovo modo di toccare il fondo. Con questo romanzo Bataille doveva toccare il fondo, descriversi, incapace d’altro che di cadere un po’ più in basso a ogni mossa fatta per distogliersene o consentirvi. Una nauseante dismisura sostituisce l’eccesso prometeico di Storia dell’occhio (nel romanzo si vomita almeno quanto non si beva, fino a crollare – bere : «sinistra risposta all’ossessione più sinistra»). Tutti i romanzi successivi di Bataille, scritti durante la guerra (Madame Edwarda, Le petit, Histoire de rats), obbediranno ormai a questa deriva. Libri ammirevoli, tra i più osceni e i più puri, brevi all’eccesso, nemmeno dei veri romanzi: non c’era niente che al tempo potesse farli notare, e infatti nessuno li ha notati poiché nessuno li ha letti. Libri che hanno inaugurato la letteratura contemporanea e che saranno riscoperti solo più molto tardi, quando altri inizieranno a scriverne di simili (o almeno ci proveranno).
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Tutto in Le blue du ciel ha l’aria di un romanzo, almeno quale lo intendiamo oggi, eppure è difficile dirlo tale. Un romanzo ben strano in effetti, dove tutto pare reale (e lo è), quasi fino al parossismo (delle persone, delle situazioni); dove pure gli interpreti sono reali e riconoscibili, anche se mai interamente; e dove capita che qualcuno di essi appaia più appassionato, folle, delirante, perduto di quanto non fosse realmente, o almeno di quanto non ci sia storicamente dato conoscere di loro. È noto che c’è molto di Bataille in Troppmann (il protagonista), molto di Simone Weil in Lazare, molto di Laure (l’amante di Bataille) in Dirty e Xenie – su questo tutte le interpretazioni sono concordi. Troppa aderenza al reale per farne un romanzo, ma non abbastanza, a rovescio, per farne un diario, una memoria, un giornale privato. La questione del «genere» letterario smette raramente di essere un problema per la letteratura contemporanea – letteratura che Le blue du ciel inaugura. È forse meglio dire che Troppmann, Dirty, Xenie, Lazare e Michel, più che dei «personaggi» in senso classico, rappresentano delle figure, forti per alcuni, pusillanimi e inconsistenti per altri, che recano alcuni tratti – alterati, caricaturizzati, portati all’altezza di circostanze incontestabilmente tragiche – di Bataille, di Simone Weil, di Laure.
Una tragedia le cui circostanze sono meno morali ed esistenziali (aspetto che, di per sé, ne avrebbe fatto altrimenti solo un altro romanzo borghese tra molti) di quanto non siano propriamente storiche. Soffermiamoci su tale questione, che fa la grandezza di questo libro: la tragedia è propriamente storica (mentre il «dramma» è intimo). Poiché è soltanto nella storia che può generarsi infine una risposta capace di rispondere all’ignota attesa cui tutte le figure del romanzo sono sospese.
Ma in fondo non è così per tutti, non è forse vero che tutti aspettano qualcosa che giunga finalmente a giustificare, a dare un senso alle loro attese, oneste o grottesche che siano ? Sicuramente questo accade in Le blue du ciel: la tragedia lo innerva, è sullo sfondo, è già lì, ma è anche a venire (come un genio girovago e sonnambulo). È a Parigi, dopo la manifestazioni delle estreme destre del 6 febbraio del 1934, a Barcellona, a Prüm, a Trento, Coblenza, Francoforte. La tragedia è in ogni luogo in cui Bataille e la sua ombra Troppmann sono passati poco prima (tranne Vienna, dove Bataille non era presente nel luglio del’34 durante l’assassinio del Cancelliere Dolfuss – trovandosi con Laure in Trentino, mentre nel romanzo Troppmann vi assiste). È come se la «sorte» o i «presagi» guidassero a colpo sicuro Troppmann (e Bataille) verso una risposta capace infine di dare loro un senso, capace di dare significato alla perdizione cui entrambi sono sospesi.
Scrivendo delle righe che dovevano servire come (auto)interpretazione a Le blue du ciel, nel 1957 Bataille dice di aver dipinto: «un personaggio che si spreca fino a toccare la morte a forza di sbronze, di notti bianche e di tresche». Una retrospettiva minimalista, minimamente intima, che riflette la conclamata modestia del suo autore, a cui però poco dopo Bataille aggiunge: «questa dépense, volontaria e sistematica, è un metodo che rovescia la perdizione in conoscenza, fino a scoprire il cielo che giace al di sotto». Ammirevole aggiunta, che distilla l’interpretazione del libro e del suo finale: la scena di un surreale amplesso che si consuma fluttuando in un cimitero nei pressi di Treviri (curiosità: il romanzo inizia a Londra, dove Marx è morto, e finisce a Treviri, dove è nato).
[Surya scrive “fluttuando” perché nella scena finale del romanzo il protagonista, facendo l’amore con un’amante nel buio di un cimitero ai primi di novembre, al culmine dell’amplesso allucina i lumini e le candele posate sulle tombe come altrettante stelle di un firmamento “rovesciato”. Un cielo che si spalanca al di sotto, fatto di terra nera e umida, un cosmo invertito e materico che, come il ventre dell’amante, si spalanca come una voragine “sotto” i suoi occhi. Una notte stellata ctonia, dove ogni stella, ogni lumino che luccica sulle tombe, sta per un cadevere che marcisce, ancora più in basso, nelle viscere della terra. Ndt]
Scena affascinante e in tutti i sensi sconvolgente, che rovescia letteralmente il cielo in un sotto, in un più basso, e ci rivela qualcosa di essenziale: che tale rovesciamento è un «metodo», un’ascesi la cui unica misura è la speciale «conoscenza» che ne scaturisce. Una conoscenza dove riemerge Rimbaud, a dire della sregolazione di tutti i sensi di cui Troppmann fa la regola, e in cui Nietzche si aggiunge a Rimbaud amplificandolo. Non è sufficiente infatti che tutto sia «sregolato», è necessario piuttosto che tutto sia, pezzo per pezzo, letteralmente «rovesciato». Si tratta di mostrare il cielo invertito, di vedere il suo azzuro spalancarsi vertiginosamente ai nostri piedi, sotto i nostri occhi. Unico vero materialismo possibile, necessariamente basso, secondo l’inesausta lezione di Bataille.
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Tutto ciò che si è detto in modo imbarazzato a proposito della prolifica «necrofilia» di questo libro e del suo autore ha alla fine un senso difficile da accettare: è la morte a rovesciare tutto. Soltanto la morte mostra il rovescio di tutte le rappresentazioni. Le blue du ciel pone infatti la questione della «vanitas», intesa come genere pittorico e letterario (portato da Bataille in questo romanzo al suo più alto grado). Un aspetto che mostra come egli sia sempre rimasto in un certo senso e almeno in parte cristiano, nonostante si sia spesso lamentato con coloro che glielo rimproveravano (compreso il suo amico Klossowski, che glielo farà notare nel secondo dopoguerra). Si è parlato di «necrofilia» a proposito di questo romanzo, e se ne parla ancora. Ma per dire cosa? Niente di preciso, né di intelligente: per riferirsi a una patologia, è evidente. Un’evidenza che Troppmann non fa nulla per nascondere, che anzi confessa volentieri per provocazione, se non per cura di essere vero: «sai che ho un gusto vizioso per i cadaveri?», dice a Xenie, che probabilmente già non lo ignora, ma che forse non comprende fino in fondo cosa ciò significhi davvero. Con questa specie di confessione Troppmann svela infatti tra le righe anche la patologia del suo autore, del suo doppio, di Bataille stesso.
Bataille e Troppmann dicono di amare le prostitute, cosa già di per sé colpevole (per quanto all’epoca meno che nella nostra), di amarle come delle morte, cosa ancor più deplorevole. In Le blue du ciel Troppmann indulge anche – di fronte al cadavere di una «vecchia», che rivelerà soltanto dopo, nella seconda versione della stessa scena, essere quello della madre, circostanza ulteriormente aggravante – a dei palpeggiamenti vergognosi, che in effetti lo condannano (se proprio ci si tiene a condannare il personaggio di un romanzo, e se proprio si ambisce a farne un «malato», condizione cui il protagonista non chiede di meglio che essere ridotto). Questo però stupisce: pare ci si preoccupi dell’autenticità dei romanzi di Bataille (per giudicarli e condannarlo), ben più di quanto non ci si interroghi riguardo a ciò essi effettivamente rivelano – non tanto a proposito dei suoi reali o fittizi palpeggiamenti proibiti, quanto piuttosto nel senso che egli vi confesserebbe qualcosa di sé. Insomma, la Morale non cessa di dominare l’interpretazione dei suoi romanzi, persino delle parti che sembrano fatte apposta per riderne. Poiché non è soltanto con le sue turpitudini possibili/impossibili che Troppmann (o Bataille attraverso di lui) ci intrattiene, ma con una turpitudine di fondo – testarda e ripetitiva – che attraversa l’intera storia con la sua intrinseca patologia.
Bataille/Troppmann mostra sicuramente un gusto smodato per la morte, non indietreggia di fronte al suo diffondersi, sempre più incalzante, lungo l’intreccio della storia, eppure questo gusto e questa morte sono di tutt’altra natura rispetto a quel che appare. Non è un caso infatti che il romanzo si compia nello spettacolo affascinante e ripugnante (che affascina e ripugna Troppmann) della marcia e della fanfara dei bambini nazificati in parata, che anticipano un diverso e incommensurabile scandalo, che nessuna Morale è ancora riuscita a misurare «io guardavo da lontano… un’armata di bambini schierati in battaglia. Essi però restavano immobili, in transe. Li vedevo non lontani da me, invasati dal desiderio di andare alla morte. Allucinati dai campi sconfinati dove, un giorno, avanzeranno ridendo nel sole lasciandosi dietro i cadaveri e i moribondi». La morte, cui Troppmann si vota, non è affatto la stessa verso cui si dirigono – spandendola attorno a loro a ogni passo – questi bimbi posseduti.
Vedere il cielo rovesciato è vedere infine il cielo invertito o, piuttosto, vedere il rovescio del Cielo: l’Inferno. L’inferno di Himmelweg (Strada per il paradiso). Pre-vederlo.
[Surya con questo gioco di parole allude alla piéce Himmelweg, del regista spagnolo Juan Mayroga, che rielabora la storia mostruosamente vera della messa in scena che i nazisti (spacciando il lager per una “città modello”, e costringendo i deportati a recitare una parte) organizzarono nel 1944 nel campo di concentramento e ghetto di Theresienstadt, in occasione di una vista ispettiva internazionale della Croce Rossa. Ndt].
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Le blue du ciel non ha fatto scandalo nel 1935, anche se avrebbe dovuto (L’abbate C. l’aveva fatto sette anni prima, sulla stampa comunista). Avrebbe senz’altro fatto scandalo, se fosse stato letto (cosa che non pare essere avvenuta, nessun articolo del tempo lo menziona). Non sono l’eccesso delle scene, la nerezza della loro rappresentazione, o l’asfissiante assenza di vie d’uscita del finale, a rendere questo libro scandaloso: ciò che esso ha di davvero scandaloso è tutt’altro. Lo scandalo sta nel fatto che è un intellettuale «depravato» – cioè Bataille/Troppmann (ammettiamo pure che almeno in parte personaggio e autore si confondano) – a pre-vedere e a rappresentare meglio di ogni altro intellettuale «sano», politicizzato, morale (Breton, per esempio), ciò che stava per accadere e non poteva non accadere: il rovescio, l’inverso, di tutte le rivoluzioni che gli intellettuali «sani» del tempo auspicavano. Lo scandalo è nella deriva (di relitto) del protagonista, il quale «si spreca fino a toccare la morte a forza di sbronze, di notti bianche e di scopate»; una deriva che lo conduce ogni volta misteriosamente a incrociare la più ampia deriva della Storia, quella che presto avrebbe reso tutti quanti dei «relitti».
Breton, qualche anno prima, aveva tentato (nel Secondo Manifesto del surrealismo) di denunciare la morale paradossale di Bataille, cui si opponeva. Bataille se ne vendicherà in Le blue du ciel, dove a un certo punto si chiede: «Ma Breton e i surrealisti, che fanno di Sade un «programma», la merda, loro, l’hanno mai mangiata?». La risposta è «no, erano troppo occupati a coltivare la loro terra promessa poetica». A questa terra, poetica e ideale, Bataille oppone con Le blue du ciel una volta di più il suo infernale e definitivo terra terra. Romanzo letteralmente anti-surrealista, Le blue du ciel viene dunque pubblicato ufficialmente nel 1957, ventidue anni dopo la sua stesura, per le edizioni di Jean Jacques Pauvert, nello stesso anno de L’erotismo e La letteratura e il male. Pauvert, giovane e audace editore (trent’anni), sarà il primo a intraprendere l’edizione completa dell’opera di Sade, ambizione che gli varrà una convocazione in giudizio da parte della diciassettesima Corte correzionale parigina. Bataille testimonia durante questo processo il 15 dicembre 1956, è il solo a farlo in presenza insieme a Paulhan, mentre Breton si accontenta di inviare una «memoria». Nella sua testimonianza Bataille dirà qualcosa che interessa la letteratura nel suo principio, e di cui Le blue du ciel testimonia pro domo: «In questo momento dobbiamo difendere la possibilità di discendere, grazie a Sade, in una sorta di abisso d’orrore; un abisso che dobbiamo conoscere e che è in particolare dovere della filosofia – filosofia che io qui rappresento – mettere all’ordine del giorno, chiarire, divulgare. Ritengo che per chiunque voglia andare al fondo di cosa significhi l’uomo, la lettura di Sade sia non solo raccomandabile, ma perfettamente necessaria».
Come non riconoscere che è proprio questo «abisso d’orrore» a essere descritto in Le blue du ciel (e praticamente in tutti i libri di Bataille), e come non aggiungere che questo orrore è qualcosa che dobbiamo assolutamente conoscere, per poco che vogliamo andare davvero «fino in fondo» a ciò che l’uomo è, a ciò che esso significa, e soprattutto al fondo di ciò che esso può?
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Sei mesi dopo aver terminato Le blue du ciel, forse per lo stesso motivo che lo aveva spinto a non pubblicarlo (posticipandone l’eventualità fino a dimenticarsene, o almeno così dirà), Bataille è di ritorno a Parigi. Ristabilito, se non proprio riconciliato, riprende la lotta politica e crea Contre-Attaque, uno degli ultimi sussulti dell’estrema sinistra intellettuale rivoluzionaria prima dello scoppio della Seconda Guerra mondiale. Un ultimo sussulto cui si uniscono gli amici che lo avevano accompagnato per anni nelle sue imprese (quelli che chiamerà affettuosamente la sua «organizzazione»). In quest’occasione Bataille ritrova anche Breton, per la prima volta dopo la lite che li aveva così violentemente opposti (ritrovando oltre a lui anche i suoi veri amici, i surrealisti). Un’alleanza inedita quella di Contre-Attaque, quasi precipitosa, resa necessaria dalla gravità della situazione storico-politica. Si trattava, come dice uno dei punti costitutivi dell’organizzazione, di «salvare questo mondo da incubo» dall’ «impotenza e dal massacro in cui agonizza». L’incubo, la strage, l’impotenza, tre parole che fanno eco a Le blue du ciel, e su cui il romanzo si chiude.
Paradosso, o ferrea conseguenza logica? La stessa persona che ha scritto Le blue du ciel scriveva contemporaneamente (nel ’34/’35) un «diario», o quantomeno delle note quotidiane, che sono una specie di doppio invertito di questo libro (a metà troppmanniano: perdizioni, sesso, alcolismo, a metà batailliano: analisi, teorizzazioni); un’inversione in cui è proprio la politica a dominare la scena. Un diario che alla pagina del 30 gennaio 1933, giorno in cui Hindenburg rimette il potere nelle mani di Hitler, recita: «certamente una delle date più sinistre della nostra epoca». Alla pagina del 14 febbraio 1934, a proposito del fallimento della rivolta socialista di Vienna, invece riporta: «questa notizia catastrofica si lascia leggere senza la minima esitazione: l’Austria è nazista. Da ogni parte, in un mondo che presto cesserà di essere respirabile, si rinserra la stretta fascista». Questo infine a proposito della Spagna: «Se la rivoluzione spagnola non è stata che un fenomeno periferico, senza ripercussioni esterne possibili, il disfacimento generale dell’Europa e i nuovi avvenimenti rischiano ora di dare una curvatura invitabilmente tragica a una situazione senza uscita».
Bataille ha scritto Le blue du ciel al posto del saggio a cui lavorava nello stesso periodo, Il fascismo in Francia, lavoro incompiuto di cui non ci resta che La struttura psicologica del fascismo, testo per altro notevole sotto ogni aspetto. L’urgenza politica stava rendendo superfluo scrivere dei saggi, solo la letteratura poteva essere all’altezza di un così pressante e inedito bisogno. Solo un «romanzo», per poco che Le blue du ciel si possa dire tale, era in grado di rispondervi.
Copyright del testo: Michel Surya
Copyright della traduzione: Andrea Muni