a cura di Davide Pittioni
La grande A è stato uno dei romanzi presentati nel corso della prima edizione del Festival Letteraria. “Una storia umana – avevamo scritto nella recensione che motivava la scelta – di due generazioni di donne, madre e figlia, in cui l’Africa figura come il principale correlativo ‘fisico’ del loro essere sempre e comunque fuori luogo, straniere […] in uno stile della narrazione che riesce a mantenere miracolosamente un equilibrio tra i toni diretti e colloquiali del racconto orale, e una prosa più ricercata, ricca di accumuli, immagini e metafore”. Un romanzo a suo modo inattuale che, nel raccontare una parte importante e a lungo sottaciuta del passato del nostro paese, ci indicava anche possibili connessioni con il presente. Ed è anche di questo che abbiamo discusso con l’autrice, Giulia Caminito, approfondendo i temi che hanno accompagnato il lavoro di ricerca e allestimento di Letteraria: i possibili sguardi sul mondo delle nuove generazioni, la loro condizione, il loro rapporto con il presente.
Il festival Letteraria si è proposto di indagare lo sguardo generazionale sulla nostra realtà, interrogando quell’osservatorio privilegiato che è la letteratura. In virtù del tuo lavoro di editor e della tua attività di scrittrice, credi si possa parlare di un punto di vista autonomo e specifico delle nuove generazioni? Una specificità che ne caratterizzi la scelta dei temi e il modo di affrontarli?
Mi pare che il panorama sia vario e che non sia semplice trovare un comune denominatore valido per sottolineare una preferenza generazionale.
Ho partecipato ad alcuni dibattiti che riguardano la scrittura dei Millennials, per esempio, e sono emersi punti di vista molto distanti e anche la difficoltà di riunire la maggioranza di chi scrive alla mia età all’interno di un unico filone.
Di sicuro c’è tutta una produzione nuova legata alla letteratura sudamericana, al realismo magico italiano e alle ultime generazioni di narratrici e narratori spagnoli che anche in Italia ha alcuni rappresentanti. Ho notato di recente anche un maggiore interesse verso generi che per alcuni anni erano rimasti da parte come il noir, ma continuano a faticare drammaticamente il comico, il satirico e il romanzo d’avventura.
Penso ci sia un nutrito gruppo che si dedica alla contemporaneità e quindi a temi come la precarietà lavorativa, la depressione, la depersonalizzazione, l’incapacità di riempire i ruoli sociali impostati su modelli preesistenti, le difficoltà di coppia e di relazioni, cioè molta narrazione in prima persona, al limite dell’auto-fiction, in cui si riversano una serie di inquietudine del periodo.
C’è anche però un filone di recupero linguistico con spolvero di antichità, cioè chi si riferisce invece a storie del territorio, di quartiere, di periferia, soprattutto per i giovani che scrivono nel Sud d’Italia, a volte che scade un po’ nell’insensato arcaismo, ma che in alcuni casi mantiene viva la traccia di una grossa fetta della letteratura italiana tradizionale.
Quello che noto soprattutto è un deciso e drammatico scollamento rispetto alla società e alla politica e alla storia, trovo molto difficile rintracciare miei coetanei impegnati in quel tipo di ricerche che poi riescano a tradurle in un romanzo o in una raccolta di racconti. Spesso rispetto a questa osservazione muovo la critica anche a me stessa, perché sento di non riuscire a fare abbastanza, non avere sufficiente coraggio o intraprendenza.
Forse il disamore provocato dalla dimensione immonda della politica contemporanea e la scarsa volontà di partecipazione giovanile hanno la loro parte e possono spiegare questa lontananza e difficoltà che ci accomuna.
Se è complesso, e forse troppo perentorio, perimetrare un punto di vista propriamente giovanile, è invece più comune riferirsi alla condizione giovanile. Qual è la tua percezione sull’attuale collocazione delle nuove generazioni: è la stessa condizione di sempre, che accompagna con forme diverse la maturazione di ogni generazione emergente, o ha una sua specificità legata all’orizzonte di crisi e provvisorietà che si è trovata a vivere?
Come dicevo nella risposta precedente, mi sono fatta l’idea che manchi un certo rapporto diretto di chi scrive con la realtà sociale e politica, soprattutto un rapporto che esca fuori dalle relazioni “intellettuali” per proiettarsi nel mondo, verso associazioni, operatori sociali, insegnanti, sindacalisti, movimentisti, attivisti, ma anche verso il teatro, il cinema, la musica. Essere orizzontali, creare raccordi, intrecciarsi e non proiettarsi verticalmente verso la necessità di emergere nel proprio ristretto gruppo di riferimento. Mi sembra, ma forse questa è una prospettiva che riguarda la città di Roma dove vivo e che altrove è diluita, che non ci sia molta comunicazione, ma si tenda a conservare ognuno il proprio ambito peculiare. Io sto provando a fare degli sforzi in questo senso ma, come dicevo, mi sento ancora in alto mare, e se non fosse per alcuni maestri e maestre che hanno più anni di me, forse non saprei come orientarmi neanche in questa ricerca.
Ti convincono le retoriche del merito e delle competenze, che da tempo ormai vengono associate ai settori, propriamente giovanili, della formazione e del nuovo lavoro?
Io so solo che forse tra alcuni decenni ci si renderà propriamente conto di cosa sono stati questi anni per chi ha studiato, si è laureato ed è rimasto alle soglie del mondo del lavoro. Quello che ho purtroppo notato con la mia esperienza è che si tende a non legittimare mai la competenza acquisita dai nuovi lavoratori. Questo in campo editoriale a mio avviso è imbarazzante. Dopo cinque o sei anni di lavoro, anche con ruoli di responsabilità, vieni sempre considerato apprendista, nuovo venuto, ragazzino o ragazzina che deve dimostrare di avere capacità a ogni nuovo incarico che riceve. Potrei scrivere un libro intero sui comportamenti inqualificabili di tutto un settore editoriale ma anche intellettuale, che tende a non rispettare, non apprezzare e demotivare il lavoro giovane in questi ambiti. L’infantilizzazione della nostra generazione (spesso anche autopromossa e autoinflitta) è un grosso problema, che riguarda il riconoscimento delle capacità lavorative a livello pubblico.
Indagare la prospettiva giovanile significa anche fare i conti con la sua condizione materiale – precaria e profondamente interconnessa, per tratteggiarla sbrigativamente. Come influisce questa condizione sulla tua attività di scrittrice, operatrice culturale e intellettuale?
Io sono molto fortunata, ed è bene anche fare outing quando si vive qualcosa di positivo e non solo lamentarsi per le proprie difficoltà. Per fortuna, appunto, il rapporto che ho con la mia casa editrice (Giunti-Bompiani) mi ha garantito finora di poter scrivere liberamente e poter lavorare per loro come editor o traduttrice all’occorrenza. Da un anno ormai ho deciso di lavorare da casa come editor e di scrivere. Non so se questa sia stata una saggia scelta, non so dove mi porterà, ma per ora è possibile e quindi voglio continuare a provare, nonostante le difficoltà. Il mio lavoro nell’editoria è sempre stato “senza fissa dimora”, in balia di questioni economiche avvilenti e situazioni di stress e di frustrazioni altissime, quindi ho preferito staccarmi da un lavoro di quel tipo a tempo pieno e provare a cavarmela scrivendo e lavorando per conto mio.
Pur affrontando un tema apparentemente inattuale – come è quello del colonialismo italiano – il tuo romanzo ha sicuramente un’alta originalità nello sguardo e nello stile con cui affronta il tema della memoria: come lo collochi rispetto alla condizione giovanile che vivi? Ha una correlazione con l’attualità e la prospettiva che hai sul mondo?
Sto cercando di scavare nel passato che mi riguarda, cioè nella memoria della mia famiglia, perché sono circondata da grandi storie che mi interessano e mi attraggono. Mi sento in profonda difficoltà a parlare del presente, per ora, e soprattutto di me stessa, lo faccio di più nella forma del racconto breve, ma quando si tratta di un romanzo ho bisogno di studiare e accumulare materiale, certe volte se non ho un libro da leggere per costruire un paragrafo non riesco ad andare avanti. Forse questi sono in sintomi di una mia patologia rispetto al mondo e all’attualità.