di Francesco Ruzzier
Il ruolo del poeta è da sempre stato quello di riuscire a dare i nomi alle cose, di raggiungere e trasmettere con le parole dei concetti e degli stati d’animo in maniera talmente potente da renderli immediatamente reali. È questo il meraviglioso pensiero che sembra volerci regalare Pablo Larraín con il suo Neruda: un biografico tutt’altro che classico, che sfrutta un periodo della vita del poeta e senatore della Repubblica Cilena Pablo Neruda per cercare di costruire un’opera sul potere della narrazione e dell’arte di raccontare le cose e le persone.
Siamo nel 1948 in un Cile in piena Guerra Fredda, dove il senatore del partito comunista Pablo Neruda si oppone alle decisioni del nuovo governo filo-statunitense, ritrovandosi l’ispettore di polizia Peluchonneau alle calcagna, pronto ad arrestarlo. Ed è da qui che parte il regista di El club per sviluppare un’eccezionale riflessione sull’impossibilità (o l’inutilità) di un tentativo di rappresentazione del reale attraverso l’arte, capace di immergere lo spettatore in un avvolgente universo in cui nulla sembra essere accaduto veramente, ma che al contempo esiste grazie alla narrazione stessa. Un concetto piuttosto complesso, che Larraín riesce a sviluppare in modo lucidissimo affidandosi ai pensieri dei propri personaggi che per tutta la durata del film riflettono sul proprio ruolo all’interno della storia, evidenziando così il potere di creazione di narrazione e parola.
Se Neruda esiste grazie ai suoi pensieri tradotti in poesia e diffusi clandestinamente dai compagni del partito, Peluchonneau è invece convinto di esistere in quanto persona ed ispettore di polizia, finché non inizia a dubitare di far parte della Storia solo in funzione di Neruda, ricoprendo in questo senso il ruolo di personaggio secondario da contrapporre al protagonista all’interno dell’universo narrativo: una presa di coscienza, quella del personaggio interpretato da uno straordinario Gael García Bernal, che lo porterà a cercare di uccidere il poeta per dimostrare a se stesso la propria indipendenza, rendendosi però poi conto che non potrà mai far parte del racconto in maniera autonoma e se Neruda decidesse di non “salvarlo”, anche semplicemente nominandolo in qualche suo scritto, svanirebbe nel nulla.
Un’idea, quella di Larraín, che riesce a mettere in luce in maniera semplicemente sublime l’importanza e il potere di raccontare le storie e le persone, di come solo continuando a narrare sia possibile rendere reale (e immortale) un pensiero, un evento, un sentimento o un personaggio.
In questo senso il regista cileno decide di inquadrare spesso e volentieri i suoi personaggi in controluce, mostrandoci le loro silhouette indistinte, i contorni di ciò che rappresentano nella memoria e nella narrazione, esibendo le ombre piuttosto che i volti, ricordandoci di come siano semplicemente delle idee in attesa di tornare in vita attraverso l’arte.