di Giuseppe Nava
(Illustrazione di Silvia Mengoni)
“Sette teste di topo, con altrettante coroncine scintillanti, sbucarono dal pavimento, squittendo e soffiando orribilmente… E, dopo le teste, sgusciò fuori il corpo cui le teste medesime – e relative corone – appartenevano”.
Questa è la prima apparizione del Re dei Topi nella fiaba di E.T.A. Hoffmann Schiaccianoci e il Re dei Topi, da cui poi verrà tratto il famoso balletto Lo Schiaccianoci musicato da Čajkovskij.
Nel racconto il soldatino di legno Schiaccianoci, alla guida dei giocattoli, difende la piccola Maria dall’esercito dei cattivi roditori, comandato appunto dal Re dei Topi. Questo stesso nome è stato usato anche per indicare un curioso fenomeno di cui si contano pochi casi, documentati a partire dal XVI secolo. Si tratta del ritrovamento di gruppi di ratti, in numero variabile, con le code inestricabilmente intrecciate. Quasi sempre sono tutti morti. Vengono rinvenuti nelle campagne, dove i ratti si rintanano nelle intercapedini dei muri o dei pavimenti. Alcuni re dei topi sono stati adeguatamente conservati in musei come “curiosità”, mentre quei pochi studiosi che ci si sono dedicati non ne hanno ancora dato una spiegazione univoca. La più plausibile è che i topi, avvicinandosi per scaldarsi a vicenda nel freddo inverno della campagna, avvolgano banalmente e casualmente le code; il primo che fa per allontanarsi, trac!, stringe il primo nodo. Quel che segue dev’essere un osceno e inutile brulicare di zampette, un susseguirsi di soffi e squittii terrorizzati. Le asole si stringono ulteriormente, si rompono alcune ossa delle code, impiastricciate di sebo e merda congelati. I ratti tirano fino allo sfinimento, fino a che non cominciano a morire. Una faccenda talmente assurda da non trovare posto nemmeno nei libri di misteri e storie incredibili, di quelli con le foto sgranate in bianco e nero del mostro di Loch Ness o del Bigfoot.
Ratto (“dal verbo ant. alt. ted. razzon, med. ratzen, ovvero raschiare, grattare, che darebbe il senso di rosicchiante”), sorcio, pantegana, topo. Secondo uno studio del 2007 (A. L. Foote, J. D. Crystal, Metacognition in the rat) il ratto grigio sarebbe una delle poche specie animali metacognitive, cioè in grado di “pensare il proprio pensiero”. Nel test di laboratorio descritto nel saggio, i topi dovevano stabilire se un segnale acustico fosse lungo o breve: la risposta giusta garantiva una bella ricompensa in cibo, quella sbagliata invece nessuna ricompensa. E poi c’era la terza via, ovvero la possibilità di non rispondere in cambio di una piccola – ma certa – quantità di cibo. Di fronte a segnali decisamente lunghi o corti, nessun problema. Ma con segnali di media lunghezza, i topi avrebbero preferito non scegliere, dimostrando quindi di essere socraticamente in grado di sapere di non sapere. Chissà qual è il pensiero di un topo che scopre la propria coda aggrovigliata a quella dei suoi compagni; se a un tratto subentra la rassegnazione o se non smette mai, fino all’ultimo, di cercare di liberarsi: “non c’è in fondo alcun motivo per negare una psiche alle creature più umili”. Quel che è certo è che, appena dopo la morte, il ratto grigio emana dal corpo una piccola ombra scura, che inizia a fluttuare nell’aria. Un’ombra che si muove come una medusa, sospinta dalle correnti d’aria.
Quando più animali muoiono vicini, come nel caso del re dei topi, le ombre di ciascuno si uniscono alle altre in un’ombra più grossa, minacciosa.
Io posso dire di averla vista, l’ombra di un re dei ratti. Una notte che mi sono svegliato senza motivo apparente, e ho visto un’ombra salire dal lettino dove dorme mia figlia. Un’ombra vagamente sferica, è salita verso il soffitto per poi disperdersi nel buio. La bambina dormiva e sembrava stare bene, eccetto per una smorfia sul volto, le labbra piegate in giù. Le ho fatto una carezza e si è rilassata. Ho guardato ancora in alto e in giro per la camera, ma non c’era più traccia dell’ombra. Solo dopo ho capito che non poteva essere altro che l’ombra del re dei topi, venuta a fare visita al sonno di Eleonora per raccontarle che la mamma è una persona separata da lei, che potrebbe andarsene e non tornare mai più. Le ha raccontato che certe cose intrecciate si possono sciogliere, e altre invece, come le code annodate, non si possono più separare. Oppure le ha raccontato della montagna, della grotta magica che si apre per accogliere i bambini che il pifferaio porta con sé, la grotta che non si riaprirà mai più per loro.