di Giuseppe Nava
All’alba suo padre andò a seppellire il moncone nel campo dietro casa. L’uomo scavò nei pressi di un melo, come aveva fatto suo padre e il padre di suo padre. La terra era dura e gelata. Nelle mani intirizzite, l’involto di stoffa che conteneva il cordone gli sembrava caldo. Lo ricoprì in fretta e tornò a casa. Lontano, lungo la strada, delle sagome scure di uomini camminavano nella sua direzione.
Anche gli aztechi seppellivano il cordone vicino a casa, se di una femmina. Quello del maschio veniva invece affidato a un guerriero, affinché lo seppellisse nel luogo di una prossima battaglia. Suo padre non sapeva tutto questo, ma sicuramente sperava non ci fossero più battaglie.
In casa, le donne avevano radunato in un cesto le lenzuola e gli stracci intrisi di sangue, e andavano avanti e indietro dalla camera. Nessuno gli badava. Infilò la testa nella stanza in penombra. Sua moglie, seduta sul letto, stravolta, teneva un fagotto in braccio, cullandolo piano. Lo vide sulla porta e gli sorrise debolmente, poi tornò a guardare il fagotto.
Chissà se era davvero andata così. Sapeva di essere nato in casa, ma non gli avevano mai raccontato altri dettagli. Sapeva che suo padre, probabilmente brontolando qualcosa sulle superstizioni e l’ignoranza, era andato al melo a seppellire il moncone.
Gli adulti guardano al neonato con gioia e diffidenza. Il bambino arriva sulla terra da un altro mondo, come uno straniero, e va ospitato. È lo sviluppo di una stringa di spazio e tempo che da un’altra dimensione si arrotola nel ventre della donna. Questa stringa non deve intrecciarsi: il nodo che la levatrice fa al cordone, quel nodo che è la nostra prima cicatrice e che sancisce la separazione dal corpo della madre, l’inizio del singolo individuo, dev’essere il primo. Nessuno deve intrecciare le dita o accavallare le gambe in presenza di una donna incinta. Lei stessa deve evitare di farsi trecce ai capelli, di avvolgere matasse, di chiudere porte o cancelli con catene. Deve essere sempre accuratamente pettinata, per evitare ogni ostacolo al passaggio dal cosmo rovesciato al nostro mondo. Del resto anche Ovidio, “i nodi impediscono il compimento delle cose” (Fasti, 254-258).
Ma allora perché tutta questa sofferenza, si domandava, perché questo dolore sordo e goffo? Il desiderio, solo, di ritrarsi dalla vita fino a sfilacciarsi, sciogliersi nelle fibre del lenzuolo, scomparire. Disperdere nell’aria questo inutile corpo pesante, questo corpo che lascia dietro sé una scia nera di pensieri. Perché? Il problema sarà forse là, in quel momento appena prima del taglio, un gesto sbagliato nel punto di stringere i due capi del cordone? Un errore che paga da tutta la vita? Oh my oh my, what a wretched life…
Tornare in quella grotta, presso il punto di passaggio, non visibile, appena intuibile. Disegnare con le dita sulle pareti umide, gli occhi semichiusi, nella notte del mondo. Come i santi calati nella catacomba, gli anacoreti. Da qualche parte, dentro la terra o in cima alla montagna, adeguano respiro e battito e postura alla cancellazione dell’io, allo svuotamento dello spirito e del pensiero. L’ascesi li eleva all’oltremondo, oppure è un’immersione, e sperimentano la voce del Padre oltre una parete di carne, immersi nell’amnio, cullati dal ritmico battere e dal passo della Madre, la cui voce è invece più fonda, è vibrare delle pareti, suono incomprimibile ed elastico, calato dall’alto verso i piedi e giù alla testa. Di solito ritornano (vedono chiudersi una dopo l’altra le sette porte); a volte impazziscono; a volte non tornano, nulla più si sa di loro.
Gli dissero che è importante che il cordone si conservi, che sia protetto. Esso resta in comunione magica con la persona per tutta la sua vita – un po’ come accade per gli amputati con il proprio arto fantasma. Se cade nelle mani sbagliate, può essere usato per incantesimi, fatture contro la persona. Gli dissero anche che, per i maschi, era importante tagliare il cordone a una certa distanza dalla pancia, per garantire la virilità. Lasciò perdere quest’ultimo dettaglio e domandò cosa avrebbe dovuto fare.
Si ritrovò quindi in quel campo, all’alba, dove anni prima suo padre aveva rinnovato un rito vecchio di generazioni. I primi aerei della giornata già partivano o atterravano nel piccolo aeroporto che era stato costruito lì vicino. Riconobbe il melo solo per via dei frutti marci che puntellavano il terreno sotto le fronde. Ma dove avrà scavato, suo padre? Quell’uomo nervoso e sbrigativo, che in silenzio si caricava di rabbia fino a esplodere, per poi ricominciare. Si concentrò sul punto, ai piedi dell’albero, più vicino alla strada. Dopo aver smosso la crosta dura del suolo gettò la piccola pala da giardinaggio e in ginocchio cominciò a scavare a mani nude.