di Petra Macor
Trigger warning: il libro, e questa recensione, contengono riferimenti espliciti ad abusi sessuali, razzismo, violenza istituzionale, violenza di genere, uso di sostanze, suicidio.
Chav, Solidarietà coatta, la narrazione personale e politica di un sottoproletario cresciuto nei sobborghi di Nottingham, può sembrare una storia a lieto fine. Un bambino cresciuto in un contesto sociale intriso di degrado, abusi sessuali, razzismo e pratiche illecite diventa un giovane adulto violento, ladro, tossicodipendente, sex worker, un deviato pericoloso. Lo Stato sociale cerca di salvarlo più volte, con i buoni consigli di guardie e assistenti sociali e accogliendolo nelle maglie della rieducazione. Non bastano il carcere minorile, le case famiglia né le notti in cella. Finalmente entra in un ospedale psichiatrico, lì si disintossica e, dopo una vita ai margini, trova il tempo di leggere. In un luogo sicuro, lontano dal suo contesto malato, in un tempo sospeso, Hunter si redime. Impara a leggere a ventitré anni e gli capitano tra le mani i Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, divora il libro e mette ordine ai propri pensieri. Conclusa l’esperienza di cura della propria salute mentale, riprende gli studi e trova un’occupazione dignitosa, incornicia il suo essere queer in una relazione stabile, e soprattutto inizia a scrivere.
Con i suoi libri arriva il lieto fine, per lui e per noi: regala alla sinistra annacquata una finestra aperta sul disagio, da guardare con eccitazione in estetici tentavi di appropriarsi di spazi e corpi indisciplinati. La sua storia è un dono per chi si aggira nei quartieri poveri e pensa che un po’ di letteratura, una pista ciclabile e un gruppo di acquisto solidale innalzeranno le persone disagiate su un piedistallo accettabile, come feticci di un discorso politico paternalista che si impossessa di ogni forma di autodeterminazione.
Chav non è questo, e prima di leggerlo è necessario provare a interiorizzare una delle più grandi lezioni di Hunter: la consapevolezza del proprio privilegio. Hunter è un rom irlandese, la sua famiglia è attivamente razzista nonostante – o proprio per – la sua appartenenza a un gruppo discriminato. Subisce abusi sessuali intrafamiliari fin da piccolo, la madre è una sex worker tossicodipendente incapace di prendersi minimamente cura di lui e delle sue sorelle. Impara a rubare e a picchiare, perché queste sono le skills richieste per contribuire al sostentamento familiare. Trova altre famiglie e altre case, trova un luogo sicuro nei parchi tra ragazzinǝ violentǝ, si prendono cura di lui coppie con dipendenza da eroina in edifici abbandonati più accoglienti di qualsiasi casa famiglia, entra ed esce dal carcere. Sembra difficile trovare del privilegio in questa storia, ma Hunter sa bene che non sarebbe sopravvissuto a se stesso e al proprio ambiente se fosse stato donna o nero. Forse ce l’avrebbe fatta, ma il suo essere un bianco cisgender gli ha permesso di attuare con più facilità strategie di sopravvivenza, e di resistenza, sia nella vita precedente – di homeless, drogato, violento – sia nella mimetizzazione in una middle class che gli apre le porte quando riesce ad attraversare il mondo in modo socialmente accettabile. Le persone nere a lui vicine venivano arrestate più spesso e con maggior brutalità. Le persone identificate come donne subivano violenza in maniera più strutturata. Lui, dal fondo della catena alimentare neoliberista, rimane consapevole del proprio privilegio, e solo con questa lente possiamo leggerlo, ricordando che la sua realtà, nella maggior parte dei casi, non è quella che viviamo. Senza aggiungere un “per fortuna”, con un’onesta distanza che permetta di legittimare i margini senza l’urgenza di salvare o mettere ordine. Hunter reclama spazio senza fare sconti e, anche quando trova le parole per dare un significato politico a traumi e deprivazioni – figli delle dinamiche capitalistiche, patriarcali e razziste –, ci ricorda le contraddizioni dell’attivismo. Quando si avvicina alla militanza, incontra “guardiani morali della politica radicale che pontificano sulla merda” e nota all’interno dei movimenti “una spiacevole combinazione di autocompiacimento per la propria saggezza e di dubbi sul fatto che ne valesse la pena”. Senza la consapevolezza del ruolo che assumiamo in una struttura sociale oppressiva, diventiamo discriminanti a nostra volta.
Il libro non ci lascia ricette magiche per evitare di trasformarci in “papponi della miseria”, riconosce che il lavoro da fare è complicato, deve saper parlare con le persone povere e working class legittimando la solidarietà che attraversa il degrado e la capacità di autogestione dei gruppi marginalizzati.
Fare un onesto passo indietro, con la consapevolezza del proprio privilegio, non trasforma Chav in un racconto lontano e aberrante. La solidarietà coatta può anzi essere una lente, anche per le piccole storie del nostro tessuto urbano provincialista e progressista. Ci vantiamo delle nostre politiche sociali all’avanguardia in tema di salute mentale. Ci vergogniamo di una città salita alla cronaca nazionale per un movimento che ha svelato l’esistenza della violenza istituzionale. In entrambi i casi, su piani diversi, diventiamo moralistǝ paladinǝ dell’ordine pubblico, evitando di riconoscere la possibile organizzazione collettiva e le forme di resistenza autonoma delle persone relegate ai margini.
Hunter naviga nella salute mentale, principalmente propria e di sua madre, con una consapevolezza spiazzante. Senza dire che la salute è un concetto globale che non coincide con l’assenza di malattia, senza nominare il paradigma bio-psico-sociale, senza citare Basaglia, inquadra la questione e aggiunge la coscienza di classe. Non ha bisogno di idolǝ né di idee preconfezionate. Sa che i suoi drammi e quelli della madre sono politici, sa che vengono ignorati proprio per questo e che è più opportuno investire sulla salute mentale della classe bianca lavoratrice, in un tentativo di arginare ansie e depressioni per rimettere le persone al loro posto nella catena produttiva neoliberista. Chi non è in grado di gestirsi, verrà controllata dalle istituzioni statali, le stesse istituzioni che creano e mantengono il contesto da cui i problemi hanno avuto origine.
La violenza non è un demone da controllare, né quando è interna ai gruppi né quando diventa forma di resistenza politica. Va rivendicata e riconosciuta, legittimando le forme di lotta anche se non sono quelle che ci si aspetterebbe. Hunter è consapevole che “si continua a rifiutare l’idea che debba essere l’oppresso a decidere la propria forma di resistenza” e legittima le forme di lotta anche quando non sono quelle che ci si aspetterebbe. Sostiene che le scelte vadano appoggiate senza paternalismo, se si vuole essere considerati alleatǝ o complici: “l’alternativa è passare dal lato dell’oppressore.”
Leggere Chav. Solidarietà coatta, è devastante quanto urgente.
Perché non spendiamo abbastanza nella costruzione di energie e competenze, perché non sviluppiamo una strategia a lungo termine che riconosca i danni inflitti dal neoliberismo transatlantico alla working class, alla comunità a basso reddito, alla capacità di queste persone di lavorare in maniera collettiva? L’estrema destra, i fascisti e i movimenti xenofobi continuano a promuovere questo tipo di attivismo (D. Hunter , Chav. Solidarietà coatta, Edizioni Alegre, 2020)