di Livio Cerneca
Mentre compiono i preparativi per una festa paesana, due uomini del villaggio – due personaggi come se ne trovano nelle piccole comunità, di quelli che si danno da fare, creativi, artisti artigiani, carpentieri attori, musicisti idraulici – evocano la provincia friulana con la sua campagna, le sue macchiette, con le sue architetture rurali che proiettano ombre su sterrati di cortili e piazze del municipio in domeniche pomeriggio deserte.
Giuseppe Battiston e Piero Sidoti ci accompagnano lungo le sponde del Tagliamento e sui prati di rugiada alle porte di Casarsa con questo lavoro basato su testi e poesie di Pier Paolo Pasolini, in particolare quelle della raccolta La Nuova Gioventù, del 1975, che include i versi del ciclo La Meglio Gioventù (poesie 1941-1953) e una rielaborazione successiva dei medesimi scritti intitolata La nuova forma de “La meglio gioventú” (1974). Si tratta dell’ultimo libro pubblicato da Pasolini in vita, e il senso di fine imminente è sempre presente nella rappresentazione: il ricordo disperato della fanciullezza, la voglia di tornare nei luoghi antichi, l’inconsolabile nostalgia del migrante.
Quando la sera si perde nelle fontane
il mio paese è di colore smarrito
Io sono lontano, ricordo le sue rane
la luna, il triste tremolare dei grilli.
L’umanità del paese e dei borghi circostanti si dà convegno alla sagra e così, nel lirico passo drammaturgico conferito dalla scrittura di Renata M. Molinari e la regia di Alfonso Santagata, facciamo la conoscenza degli archetipi umani che possiamo riconoscere in tutte le valli e le pianure del mondo, con le loro relazioni d’amore e d’interesse, con la perenne necessità di sopravvivenza e la stanchezza di lavori pesanti, nella propria terra o lontano, nei posti dove sono stati costretti a migrare, ma anche con la carnalità e la passione, col canto e la musica, musica non solo di fisarmoniche: il Friuli Occidentale è anche West, mentre un esasperato blues, fumoso e rarefatto, accompagna la rauca preghiera pasoliniana. Le musiche originali di Piero Sidoti, eseguite da lui stesso alla chitarra, sono molto interessanti e riescono ad accogliere agevolmente i versi in lingua friulana.
Fontana d’acqua del mio paese
Non c’è acqua più fresca che nel mio paese
Fontana di rustico amore.
L’acqua del titolo è fisicamente presente sul palcoscenico. Non scenografie di fontane, effetti speciali di ruscelli, ciottoli di fiume, no, qui l’acqua è contenuta nel suo recipiente d’elezione, il secchio, uno di quei vecchi secchi di acciaio zincato dal quale si possono attingere speranza e conforto in una vita che raramente ne offre, festa di paese ai piedi del Golgota, malinconica ombra di esistenze incompiute.
Rappresentare a Trieste questo spettacolo è anche, per qualche verso, un’operazione di mediazione culturale, se è vero che i triestini hanno sempre avuto qualche sospettosa riserva nei confronti della cultura friulana, che poi i triestini hanno in genere sospettose riserve su tutto quanto. Non C’è Acqua Più Fresca contribuisce invece a far conoscere più intimamente le reazioni e le aspettative di un popolo a noi così vicino eppure sanguignamente distante, alieno, introverso in cui sono ancora ben vivi tratti ancestrali che facciamo fatica a riconoscere ma che, in fondo, abbiamo in comune.
Non c’è acqua più fresca è in scena al Teatro Bobbio a Trieste, il 17 e 18 febbraio 2017.