Nonno Ebuh #2. “Reuto Ottodita” (PT. I)

di Leonardo Pelloni Quintabà

Quando la risata se ne andò dal volto rugoso di nonno Ebuh, il vecchio, ancora sorridente, alzò lo sguardo, verso un punto dietro le spalle dei tre spettatori, e fece un cenno con la mano.
Merath, girandosi, vide che gli altri bambini erano già arrivati da un po’, ma non si erano avvicinati: nessuno rischiava di sprecare una storia e sentire solo il finale!
Erano ventidue, tredici bambine e nove maschi, dai cinque ai nove anni. Quelli più piccoli stavano ancora con i genitori e non aiutavano nella tribù, e quelli più grandi erano già alla Biblioteca, decine e decine di lati [1] da lì, per studiare e diventare uomini.
Al prossimo passaggio, tutti quelli di nove anni, compresi Umeneo e Siva, sarebbero rimasti là e avrebbero iniziato la scuola. E Merath, che era un anno più giovane, sarebbe rimasto da solo, senza i suoi migliori amici.
Uguale, non voleva pensarci adesso! C’era un’altra storia ad attenderli e non teneva più le redini per sentirla.
Nonno Ebuh aspettò che tutti fossero seduti e attenti, poi chiese con fare distratto “Chi di voi ha già studiato le usanze del Nord e del popolo dei Drohkin?”
Quasi tutti i più grandi alzarono la mano. Tutti i bambini volevano imparare tutto dei Drohkin, il prima possibile: era la terra della caccia selvaggia, della lotta contro i draghi, dove guerrieri terribili e donne intrepide sfidavano il gelo, assetati di sangue.
“Bene, bene” annuì, come se parlasse con se stesso, “ma comunque non vi servirà per questa storia. Vi parlerò oggi dei Drohkin, prima che fossero Drohkin. Vi racconterò di Mayta, la prima guerriera”.
Umeneo alzò la mano, la fronte aggrottata, come spesso, e lo sguardo concentrato, come sempre: “Ma, nonno Ebuh, la leggenda di Mayta la conosciamo tutti. Fa parte della formazione di base pre-tribale, non credo che…”
“Shhh, shhh, fammi finire e non scalpitare. Lo so bene quello che avete già studiato. Quello che vi racconterò oggi non è la leggenda, ma la vera storia di Mayta, o meglio, quello che siamo riusciti a ricostruire, utilizzando centinaia di testi e frammenti del Primo Regno, rianalizzati alla luce dei racconti orali dei Drohkin”.
Tutti rimasero a bocca aperta.
Merath si voltò a guardare gli amici, e quasi scoppiò a ridere. Siva si sporgeva tanto in avanti che era un magia riuscisse a stare seduta; Umeneo era così immobile e attento, che forse si era dimenticato di respirare. Li capiva benissimo, perché un racconto simile era raro come l’acqua e prezioso come i boschi.
Ogni storia che i Cercatori avevano ricostruito portava con sé centinaia di altre storie: quelle degli uomini e le donne dei Mhas’Kahn che avevano setacciato ogni archivio, inseguito ogni fonte, solcato mari e battuto le piane al galoppo, che avevano speso anni, decenni, per alcune vicende addirittura secoli, a cercare ogni possibile briciolo di informazione e a unirli insieme meticolosamente, insieme ai Maestri della Biblioteca.
Era questo che rendeva il loro popolo ciò che era. Loro erano Mhas’Kahn, il popolo della memoria. Loro non dimenticavano e non lasciavano dimenticare.
Nelle storie come questa, pulsava indomita l’anima della loro gente.
“Ma prima, dovete capire una cosa”, continuò nonno Ebuh “una cosa estremamente importante. Le fonti sono spesso alterate, i frammenti minimi e decontestualizzati, le stesse parole hanno perso un significato, magari assumendone un altro. La filologia non è in alcun modo una scienza della verità, tutt’al più del probabile…”
“Ma Tecnevio, in Verità e Ricerca sostiene che…” iniziò Umeneo concitato.
“Tecnevio era un imbecille, anche se un imbecille molto colto.
Alla tua età, Umeneo, nessuno si aspetta che tu legga criticamente un testo; ma non credere ciecamente a tutto quello che trovi nei libri. Dove c’è l’essere umano, c’è stupidità, in ogni ambito”.
Fece una piccola pausa, cercando di ritrovare il sentiero nella Piana [2], e poi continuò: “Dicevo, la filologia non ci porta alla verità, ma al probabile. Anche se il significato di ogni parola fosse rimasto invariato nei millenni, non lo sarebbe il modo di vedere il mondo degli ascoltatori. O dei lettori. E anche se i popoli fossero in una fredda e immutabile stasi, una storia sarebbe comunque diversa ogni volta che qualcuno la racconta e ogni volta che qualcuno la ascolta”.
Una dolce vibrazione corse per l’umido humus su cui sedevano.
Dal centro del villaggio si levò una nuova colonna d’acqua: l’undicesimo soffio.
Tutti, vecchio e bambini, chiusero un attimo gli occhi, per ringraziare Noetorogio.
Dopo la breve interruzione, quando fu sicuro che il pubblico fosse di nuovo attento, nonno Ebuh continuò.
“Sembra che io debba darmi una mossa, o mi prenderò una bella strigliata da tutte le mamme della tribù” sorrise vispo, “quindi è ora di concludere il discorso e iniziare il racconto”, si interruppe. I suoi occhi discromici sondarono la piccola platea, si sollevarono, a inseguire un pensiero, e il vecchio mormorò fra sé e sé: “sì, sì, si potrebbe dire così…”
Alzò il tono della voce, rivolgendosi di nuovo ai bambini: “Ricordatevi solo questo: ogni storia vera è anche una storia inventata. E ogni storia inventata, è anche una storia vera”.
Merath si guardò intorno, solo per trovare sul viso degli altri la stessa espressione che doveva avere anche lui: non era esattamente chiaro e nessuno aveva capito. Tranne Umeneo, che annuiva indisturbato.
Nonno Ebuh, notando le facce, scoppiò di nuovo a ridere.
“Per ora, ricordatevi e basta che il vecchio Ebuh ve lo aveva detto. Ma basta cavalcare in tondo, fatemi iniziare”.
Come sempre, prima di un racconto, guardò un attimo a terra, mettendo in ordine pensieri e ricordi, fra le mille e mille storie che conosceva.
“Allora…

Seconda storia

“La ricerca, la scoperta e la curiosità sono l’anima del nostro popolo; ed esattamente come noi, sono erranti, volubili e libere.
Capita che facciano giri molto lunghi, si muovano a zig zag come il cavaliere nelle Piane, capita che abbiano bisogno di anni per arrivare a un punto molto vicino, o che raggiungano incredibili distanze in poco tempo. Sono tutte e tre molto legate al caso e all’umore, e sono figlie dell’attenzione.
Quindi mi si perdonerà, se per arrivare alla storia che voglio raccontarvi, mi muoverò circospetto, seguendo un percorso poco lineare: siamo a caccia, in fondo, a caccia di un racconto. E questo in particolare, fra tutti quelli che il nostro popolo ha cercato, è agile e schivo.
Dovrò accostarmi prudente, o potrebbe notarci e sparire nel folto dell’erba alta. E se ci si presentasse di fronte improvviso, potremmo non essere pronti ad afferrarlo; e sarebbe uno spreco.
Bisognerà, temo, partire dalle tracce, dalla storia della storia: bisognerà iniziare da Reuto.
Vedete, la leggenda di Mayta la conosciamo tutti: circa tremila anni fa, tra i ghiacci del Nord, un piccolo gruppo di esuli lottava ogni giorno per la sopravvivenza.
Una di loro, una piccola donna fragile e malata, però grande nella magia, riesce con il suo potere a sconfiggere e uccidere un temibile drago, bagnandosi nel suo sangue.
Guarita e temprata da quel rituale, ritorna al suo villaggio per trovarlo assediato dai Veor [3], ma in preda a una furia disumana, li attacca feroce e indomita. A quello spettacolo, tutti, dai vecchi ai bambini, impugnano le prime armi che trovano, e insieme fanno mattanza del nemico, per poi nutrirsi di quella carne grassa e danzare per tre giorni e tre notti, celebrando la vittoria.
Così nascono i Drohkin, dopo aver appreso il coraggio da Mayta Rosa di Neve, Mayta la prima Guerriera, e aver vinto contro il nemico nella Prima Caccia.
La leggenda appunto, la conosciamo tutti.
La diamo così per scontato che non ci soffermiamo nemmeno un attimo a chiederci come sia possibile: come è arrivata a noi una storia così lontana, una vicenda nata tra ghiaccio e sangue, come è arrivata qui, nelle Piane battute dal sole, sulla schiena fresca e piovosa delle Bestie? È una lunga strada, centinaia e centinai di lati, e i Drohkin non scrivono libri, e i loro guerrieri non lasciano il Nord.
Eppure è qui, tra di noi, la insegniamo ai bambini, fa parte dei primi racconti, della prima formazione, la conosciamo bene, tanto quanto “I sette eroi” o “Jatos e il Dio”.
Non è curioso?
Chi la portò quaggiù, così lontano dal fuoco delle caverne e dall’eco delle cime innevate?
La risposta è: Reuto Ottodita.
Reuto era uno di noi, anzi, all’inizio di questa storia, circa milleduecento anni fa, era un bambino come voi: sveglio, veloce di mano e di testa, aveva occhi neri come l’ombra e capelli scuri come la notte. Come avrete ben immaginato, aveva ancora tutte le dita.
Ed era ingordo, di tutto.
La sete per la conoscenza e lo spirito di avventura sono pregi, e noi li ammiriamo sopra ogni cosa, ma Reuto era mosso da qualcosa di diverso: una brama estrema, totale, insensata.
Adorava l’inesplorato e il pericolo, e la sua fu un’infanzia selvaggia: a quattro anni conosceva già ogni anfratto e ogni ramo della schiena di Atronamedo, la Bestia sulla quale era nato, a otto si arrampicava su quelle zampe colossali con una mano legata, per scommessa, e si divertiva a salire in groppa a stalloni selvaggi. Leggeva e imparava di tutto, più del nostro Umeneo, ed era più vispo di Siva.
Quando fu tempo del legame col primo cavallo, fu il nobile Hel’Bahran a concedergli la schiena. Era il puledro più ambito del branco, furioso e terribile, con un manto fulvo, come guizzo di fiamma sotto i raggi del sole. Molti uomini e donne avevano tentato di entrare nelle sue grazie per prenderlo come destriero, ma non aveva mai accettato nessuno.
Forse, aspettava qualcuno che bruciasse della sua stessa foga, un altro fuoco per diventare un incendio.
Si potrebbe dire che fu il primo vero amico di Reuto, e l’unico in grado di tenergli testa.
A nove anni il nostro piccolo eroe, come tutti i bambini, arrivò alla Biblioteca. Lì studiò le armi e la magia, le arti, le scienze e le lettere. Tutto quello che i saggi insegnavano, lui lo imparò.
Alla fine del suo percorso, otto anni dopo, i Maestri lo promossero a tutte le Vie possibili: poteva diventare capotribù, o dottore errante, gli offrirono addirittura un posto fra le loro fila, se fosse rimasto a studiare per qualche altro anno. Ma Reuto bruciava per un solo cammino: la Via del Cercatore.
Allora i saggi lo chiamarono nella Sala della Scelta e lui entrò, e già indossava i pantaloni da sella e abiti da viaggio, e sulla schiena aveva uno zaino con tutti i suoi pochi averi.
Il Yubahari [4] lo apostrofò come di rito “Ecco un altro che giunse bambino, e lascia da uomo le alte rocce e le gentili scienze della…”
Ma Reuto fremeva già: “Maestro, ho atteso già troppo a lungo e i miei polmoni sono gonfi di polvere. La strada mi attende, e le Piane e il vento. Datemi le armi che mi spettano, e lasciatemi galoppare”.
Nessuno interrompeva il rituale di passaggio, mai.
Eppure i Maestri videro che una luce malsana bruciava sotto le scure tenebre di quegli occhi neri, e anche se erano potenti nella magia, ebbero paura. E certo erano anche curiosi di vedere quello che Reuto il Prodigio, Reuto Mente Sinuosa, sarebbe stato in grado di fare, che storie sarebbe riuscito a riportare agli scaffali della Biblioteca.
Così gli diedero Remera [5], una lunga spada grigia, antica eppure senza un graffio, tagliente come un bacio inaspettato e letale come una donna.
Poi gli diedero Ugred, un arco di legno bianco, con una faretra di frecce corvine.
Quando ebbe entrambi, senza una parola, Reuto corse fino ai pascoli, fischiando, chiamando Hel’Bahran; e il destriero arrivò come guizzo di fiamma, i riflessi del manto splendevano come il sole e le nari soffiavano ardenti.
Con un balzo, il cavaliere fu in groppa, e partì, una freccia lucente sopra i pascoli verdi.
Visitò la Gola dell’Urlo, conobbe gli Uomini del Vento, passò due anni nel Tur, prima che Grenarie conquistasse i monti Breveri, sopravvisse un anno nel Boscosangue, tornando con dei resoconti delle creature, visse tra gli elfi e ci portò molte delle loro storie.
A venticinque anni aveva esplorato ogni anfratto del continente ed era sopravvissuto a ogni pericolo che vi si potesse trovare. Remera aveva visto il sangue di molte bestie, e, purtroppo, anche di alcuni uomini. Ma lo sapete, i Cercatori non sono sempre ben accolti nelle terre oltrebosco. Dal bianco legno di Ugred s’era già levato un nero stormo di frecce.
Per soddisfare la sua sete di scoperta e la sua fame di avventura, gli rimaneva ormai solo un cammino: il gelido Nord, la landa di ghiaccio sorvolata dalle più temibili creature di Seckerth, i draghi.
Reuto cavalcò fino alla penisola del Golfo Bianco. Da lì, sarebbe salpato con una barca e avrebbe attraversato il tratto di mare che lo separava dalla sua destinazione. Eppure, i mesi passavano e il Cercatore non lasciava la riva.
Vedete, Hel’Bahran era il destriero più coraggioso mai esistito, ma non poteva seguirlo al Nord. Il buio, la neve, il ghiaccio, né erba né foraggio in quadranti e quadranti: quella terra non è fatta per i cavalli e Reuto lo sapeva.
Quindi rimandò e rimandò, passò del tempo tra le basse case degli iacuresi, raccogliendo storie della Dama [6] e degli Skal, imparando a governare il timone e la vela.
Dopo un anno però, non poteva più aspettare.
In un’ultima folle corsa, galoppò tra i boschi dei Golnvori [7], giù fino alla riva di Krastveda [8] e Hel’Bahran volò come mai prima d’ora, consumando ogni briciolo del suo ardore, perché sapeva che il suo cavaliere se ne stava andando e che questa era l’ultima cavalcata per molto, molto tempo.
Reuto aveva il cuore spaccato tra brama e dolore, e quando scese dalla groppa dello stallone, gli occhi stringevano le lacrime per non farle cadere.
Tolse la morbida sella dalla poderosa schiena dell’amico e compagno, e la poggiò gentile sulle assi della barca. Disse “Questa tornerà con me, cosicché possiamo galoppare di nuovo insieme”.
Poi sfilò i finimenti e li distese sopra la sella e disse “Questi attenderanno di cingere di nuovo il nobile muso di Hel’Bahran”.
Dopo toccò al sottosella, e il cavallo era ora libero e senza ornamenti, come lo era stato anni prima sulle Lunghepiane, quando lui puledro e Reuto bambino si erano incontrati.
Ricordando quei momenti, e tutti gli infiniti pericoli che avevano affrontato insieme, il Cercatore si avvicinò all’amico e abbracciò il petto potente, perdendosi nel soffiare profondo del suo respiro, fissando nella memoria quell’odore, quel tepore morbido.
Hel’Bahran abbandonò il grosso capo sulla schiena dell’umano e chiuse gli occhi. Se uno chiunque della gente oltrebosco, che crede che l’uomo sia così diverso dagli animali, avesse visto quella scena, si sarebbe ricreduto in un solo istante.
Forse i due rimasero così per qualche tempo, dimentichi per un attimo del mondo e del vento, del futuro e del passato, concentrandosi solo su quel perfetto abbraccio. Forse ci furono lacrime e pianti, e forse lo stallone mosse due passi verso la battigia gelida, quando vide l’amico salpare, come a volerlo seguire.
Ma anche se fosse, questo è un momento che appartiene solo a loro, e noi glielo lasceremo”.

Nonno Ebuh si interruppe.
Sembrò che fosse perso in una rimembranza, e sul suo viso scese una tristezza leggera, smussata, quella di chi ha perso qualcosa che amava da molto tempo, e oramai lo ricorda senza più ferirsi, ma solo con un dolore agrodolce nel petto.
Una lacrima scivolò dagli occhi discromici, perdendosi nelle sottili scanalature della pelle antica, ed andò a baciare un sorriso distante.
Una bambina gli chiese preoccupata: “Nonno Ebuh, stai bene? Che è successo?”
“Niente, piccola mia, niente”, sorrise il vecchio rassicurante, “mi è solo passato a trovare un amico lontano”, aggiunse più per sé che per i suoi spettatori.
Il silenzio si distese sui raggi del tramonto, come un gatto pigro si stiracchia su morbidi cuscini.
Noetorogio batté il poderoso piede a terra, e si preparò a un altro Passo.
Nonno Ebuh ancora taceva.
“Per oggi” disse ritrovando la voce e il modo “concluderemo qui.”
Il piccolo pubblico trattene il respiro, quasi sembrava voler esplodere, rifiutandosi all’idea di dover attendere ancora per sentire il continuo della storia… Ma tacque.
Chi sarebbe andato da Agha, il bahari della Forgia, a dirgli di cambiare la temperatura delle fiamme, il ritmo con cui batteva o il materiale che aveva scelto per una lama?
Avevano imparato a fidarsi delle scelte di nonno Ebuh.
Con un commiato mesto, i bambini si alzarono, ognuno diretto alla propria casa.
Merath camminò un po’ con Umeneo e Siva, fino al centro del villaggio, dove una recinzione di legno circondava la Sorgente [9], poi li salutò, e prese il sentiero di terra battuta che lo avrebbe condotto a casa.
Mentre la sera colava sulle piane, invadendo gli anfratti tra gli alberi e rannicchiandosi sopra le case di terra e pietra bianca, a Merath venne in mente nonno Ebuh, lo sguardo ancora sognante, il sorriso ancora tiepido, che se ne stava ancora lì, seduto a terra, mentre loro si allontanavano.
E allora pensò che doveva essere strano crescere, e anno dopo anno lasciarsi sempre di più alle spalle, fino ad arrivare al punto dove la vita era dietro, e non più davanti.


NOTE

1 I Mhas’Kahn misurano le distanze in “quadranti”, ovvero quadrati di dieci chilometri per lato, sistemati in una griglia precisa intorno alla Biblioteca. Quando devono considerare solo misure lineari, utilizzano “un lato”, ovvero dieci chilometri o mezzo lato, ovvero cinque. Non ha senso infatti per questi nomadi, che cavalcano i destrieri più veloci del mondo e vivono sulla schiena di colossali creature costantemente in moto, usare delle unità di misure più piccole nel quotidiano. Il sistema decimale è però lo standard nelle scienze e in altri ambiti che richiedono precisione.

2 Espressione idiomatica mascanese per “il filo del discorso”.

3 Il Veor è un gigantesco pluriartato (quattro zampe e due braccia artigliate) notturno, carnivoro e sociale. Caccia in branchi da tre o quattro individui, anche se diversi branchi possono unirsi per proteggere e sfamare una Madre, l’unico animale fertile. Sono la principale fonte di sostentamento dei Drohkin e ogni parte del loro corpo viene utilizzata: la pelliccia per i vestiti e i classici mantelli, gli artigli e le zanne per le armi, le ossa per alcuni attrezzi o come combustibile. Va aggiunto che anche i Drohkin sono la principale fonte di sostentamento per il Veor. È una rara relazione di caccia simbiotica.

4 Letteralmente il “Sovramaestro”, ovvero il “Maestro Reggente”, il “Primo dei Maestri”

5 La “Dama Rossa”.

6 Una misteriosa creatura che abita i fondali del Golfo Bianco. Il popolo che abita quelle zone la considera una divinità.

7 Significa “Collineri” nel linguaggio degli iacuresi.

8 Letteralmente “Costa Fredda”, è la punta più settentrionale di Seckerth

9 “La Sorgente” è il nome che i Mhas’Kahn danno al colossale sfiatatoio delle Bestie

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