di Pierangelo Di Vittorio
Questo testo di Pier Angelo Di Vittorio è uscito sul nostro numero cartaceo del 2020, “Apocalisse” (qui il link per acquistare le ultime copie rimaste). Lo pubblichiamo online in questi giorni, vista la bruciante attualità del tema, la multifattoriale gravità della situazione mondiale in cui ci troviamo e pensando in particolare alla sensazione prodotta pochi mesi fa dall’ennesimo film “apocalittico” hollywoodiano (“Don’t look up”). Di Pierangelo Di Vittorio è appena uscito per Mimesis anche il libro “Ragione funambolica” (di cui a breve pubblicheremo un estratto in anteprima). [Ndr]
Giovanni Morelli, geniale conoscitore d’arte vissuto nel XIX secolo, inventò un metodo per l’attribuzione delle opere d’arte che ebbe un impatto sconvolgente: nel solo museo di Dresda, grazie alle sue perizie, ben quarantasei quadri cambiarono improvvisamente firma, come la Venere del Giorgione, che figurava nel catalogo come copia di un Tiziano perduto, eseguita dal Sassoferrato. Il metodo rivoluzionario di Morelli consisteva nell’operare un gesto in fondo abbastanza semplice: per identificare la “mano” del maestro, distinguendola da quella del copista o del falsificatore, invece di considerare gli aspetti artisticamente più rilevanti – composizione, proporzione, colore, espressione, gesto ecc. –, bisognava concentrarsi sui dettagli secondari, sulle “minuzie materiali”, quali la forma di un’unghia o il lobo di un orecchio. In questo repertorio di elementi privi d’importanza, realizzati in modo pressoché automatico, senza un lavoro consapevole di elaborazione, si esprimerebbe nel modo più “autentico” la personalità dell’artista. Un po’ come i piccoli gesti inconsapevoli rivelano il carattere di una persona più di qualsiasi atteggiamento formale, frutto di accurata meditazione e preparazione. Insomma, la “firma” di un quadro andrebbe cercata in quella dimensione periferica dove più scarsa è l’attenzione dell’artista: “un esperto in calligrafia – suggerisce Morelli – li chiamerebbe svolazzi della penna”.
Trasponendo questo discorso all’esperienza cinematografica, potremmo ipotizzare che anche nei film siano disseminate delle firme che aspettano solo di essere scoperte. Al di là degli elementi espliciti – il flusso manifesto di informazioni concernenti la trama, il genere, il linguaggio cinematografico utilizzato ecc. –, nelle opere cinematografiche potrebbero esistere delle zone periferiche, degli strati secondari nei quali, allo stato latente, sono presenti altri contenuti e quindi altre possibilità di lettura. In tal senso, ogni film parlerebbe sempre anche di qualcos’altro: di un contenuto “ignorato” e che resterà sepolto fino al momento in cui un gesto, analogo a quello di Morelli, non lo farà emergere dall’ombra focalizzandosi su di esso. Ma allora in che modo un film parla di tale contenuto inconsapevole o implicito? Ossia di chi è la firma? E come s’imprime sulla materia cinematografica?
Per Marcel Proust, la memoria volontaria fornisce delle informazioni sul passato che non conservano nulla di esso; tutti gli sforzi che il nostro intelletto fa per rievocarlo, sono sostanzialmente inutili. Il passato è fuori del potere e della portata delle nostre facoltà intellettive coscienti. Esso si trova invece riposto in qualche oggetto materiale, magari privo d’importanza e che ignoriamo, oppure nella sensazione che tale oggetto suscita in noi. “Che noi incontriamo quest’oggetto prima di morire o che non lo incontriamo mai – scrive Proust – dipende solo dal caso.” L’autore della Recherche ebbe questa fortuna. I ricordi della città di Combray, nella quale aveva vissuto da bambino, gli erano rimasti preclusi, fino a quando aveva cercato di evocarli facendo appello all’attenzione. Gli basterà invece gustare un banale dolcetto, la madeleine, per ritrovarsi subito catapultato nel paesaggio della sua infanzia. La vera memoria – quella che dice qualcosa di “vero” sul nostro passato – sarebbe quindi, essenzialmente, la memoria involontaria.
In modo analogo, i film potrebbero funzionare come memorie involontarie nelle quali sono racchiusi frammenti di “verità” del mondo in cui viviamo. Se consideriamo un film come una sorta di sguardo lucido orientato verso una determinata porzione di realtà, la sua memoria involontaria non sarebbe altro che la visione periferica attraverso cui la realtà stessa s’iscrive nello spessore opaco della materia filmica. In altri termini, nei film sarebbero virtualmente presenti dei contenuti eterogenei, il cui quoziente di verità si misurerebbe in base all’involontarietà della loro registrazione, della loro memorizzazione. Meno tali contenuti sono legati al lavoro di elaborazione cosciente del film, più saranno portatori di verità. Detto in termini diversi, nel momento stesso in cui producono consapevolmente una certa rappresentazione del mondo, i film funzionano come tavolette di cera su cui, a loro insaputa, il mondo s’imprime, o come spugne attraverso cui il mondo è assorbito ed eventualmente, se pressate a dovere, rilasciato.
In conclusione, la memoria cinematografica involontaria è potatrice di verità perché non opera una “censura” nei confronti della realtà, ma libera al contrario i suoi contenuti rimossi, come succede nei lapsus o negli atti mancati, esercitando di fatto quella particolare forma di veridizione che è la parresia: il “dire tutto”, il “parlar franco”, anche se questo può ferire o mettere in crisi le nostre convinzioni e le nostre abitudini di pensiero. I film possono essere perciò considerati nel loro insieme come una sorta di archivio involontario (inconsapevole o, al limite, inconscio), di cui spesso non sospettiamo l’esistenza o che non sappiamo utilizzare. La memoria in essi custodita può essere involontaria in misura variabile, e questo non possiamo saperlo in anticipo: la scoperta delle firme nascoste, che il mondo ha impresso sulla retina cinematografica, dipende dal nostro interesse, dalla nostra curiosità e dal nostro spirito d’iniziativa.
In tal senso, Hollywood potrebbe essere una grande fabbrica, non solo o non tanto di sogni, ma anche di verità. Affermazione apparentemente provocatoria, ma che va letta cogliendo fino in fondo la sua natura “condizionale”, a vari livelli. In primo luogo, pur ammettendo che Hollywood possa essere una fabbrica di verità, essa lo sarebbe, comunque e sempre, “suo malgrado”, ossia non per quello che i suoi film veicolano “intenzionalmente” – anche se magari, per essere efficace, tale veicolazione dovrà essere dissimulata, come succede in ogni forma di propaganda (per questo la verità di Hollywood non coinciderà nemmeno con quei contenuti “ideologici” che una certa lettura critica ha la pretesa di “svelare”). In secondo luogo, Hollywood potrebbe essere una fabbrica di verità, se noi riuscissimo a utilizzarla come tale. Eventualità abbastanza remota e per diverse ragioni. Sia perché i film sono soprattutto dei prodotti di consumo finalizzati al divertimento, all’evasione ecc. Sia perché non abbiamo ancora stabilito una partnership adeguata con la cultura pop: infatti, o crediamo che, per pensare, sia necessario il pedigree accademico; oppure proiettiamo nella cultura pop dei contenuti (filosofici, sociologici) in nuce, per poi operare l’annessione dei suoi territori (film, serie tv ecc.) giustificandola nei termini di una necessaria esplicitazione di quei medesimi contenuti (dinamica colonizzatrice caratteristica della cosiddetta “popfilosofia”). Una partnership degna di questo nome dovrebbe invece partire dal presupposto che la cultura pop pensa la realtà, e dice la verità, “a modo suo”, e senza nemmeno avere la precisa intenzione di farlo. Infine, ultima condizione che potrebbe fare di Hollywood una fabbrica di verità: noi stessi dovremmo essere sufficientemente allenati a quello “sguardo periferico” in grado di cogliere la memoria involontaria o i contenuti latenti rappresi nella materia filmica. E anche questa possibilità appare oggi piuttosto remota.
In quell’immensa e caotica rete stradale che è la produzione cinematografica mainstream, si possono individuare oggi due direttrici principali, o comunque molto importanti a giudicare dal flusso di prodotti che vi circolano: quella dei film post-apocalittici e quella dei film supereroistici. Due filoni che si rinforzano a vicenda, fino a fare sistema, quasi che ogni evento catastrofico “richieda” l’intervento salvifico del supereroe di turno (la cui nutrita schiera ha finito per configurare una sorta di proliferante firmamento messianico pop). Aspetto di per sé interessante, ma concentriamoci per il momento sul genere post-apocalittico. Che cosa ci dicono i film di questo genere? Che tipo di informazione veicolano, questa volta in modo nemmeno troppo laterale o periferico? La catastrofe segna la fine di un regime di vita ordinario o quotidiano, e l’inizio di un regime di vita straordinario, spesso mostruoso, nel quale vige la logica spietata della sopravvivenza. La sopravvivenza è affidata a due massime o a due principi guida. Il primo è che bisogna rompere ogni rapporto di continuità con il mondo anteriore. Prendere sul serio la catastrofe significa vedere dietro di sé solo ponti crollati e navi bruciate. Elaborare lutti. Archiviare. Invece, non riuscire a interiorizzare tale cesura radicale, continuando a pensare e ad agire come se quello che c’è oggi fosse il seguito di quello che c’era ieri, significa fallire la sopravvivenza destinandosi a morte certa.
Il secondo principio guida è un principio di realtà: per quanto ridotto, brutto o terribile, il mondo che resta è l’unico mondo di cui disponiamo, ed è fondamentale trovare una forma di alleanza con questo mondo, trasformando quel “poco” che esso offre in una risorsa utile per sopravvivere. La sopravvivenza si presenta essenzialmente come un regime di “penuria” (materiale, sociale, affettiva ecc.) che impone un equilibrio, sempre precario e quindi costantemente rinnovabile, tra economia e creatività. Se gli zombi escono di notte, la mia città sarà una città solo diurna, dovrò rispettare un rigoroso coprifuoco e inventarmi una serie di soluzioni affinché questa limitazione non diventi un problema per la mia esistenza. In alcuni casi – penso a Bird Box e A Quiet Place, entrambi del 2018 – il regime di penuria si spinge fino a richiedere una riconfigurazione economico-creativa della nostra dotazione biologica, più precisamente fisiologica, giacché riguarda, in questo caso, il sistema somato-sensoriale: la sopravvivenza dei protagonisti di questi film è, infatti, direttamente collegata con una forma di “deprivazione” (o, se vogliamo, di “decrescita”) sensoriale. Limitarsi, depotenziarsi selettivamente – rinunciando, nel primo caso, alla vista, nel secondo, all’udito – diventa condizione di possibilità della sopravvivenza. Tuttavia, prima di salutare l’avvento di una visione anti-prometeica del nostro futuro, è bene considerare che il genere supereroico è sempre dietro l’angolo, e che questi film potrebbero essere anche (come capita spesso a Hollywood: pensiamo a Lucy di Besson), dei film supereroici che avanzano mascherati. I supereroi sono i figli della catastrofe: sopravvivono miracolosamente agli incidenti che avrebbero dovuto ammazzarli, giacché avrebbero ammazzato chiunque; e i loro superpoteri, che si sviluppano come una reazione positiva a tali incidenti, in fondo sono solo l’altra faccia del loro handicap, ossia delle “limitazioni” o delle “stigmate” che essi acquisiscono al momento della loro nascita “traumatica” (per restare nell’ambito sensoriale, pensiamo a Daredevil). La struttura di base del supereroe, il “dispositivo” supereroico è essenzialmente “resiliente”. Al punto che diventa difficile stabilire se i supereroi siano i rappresentanti di un atteggiamento resiliente o se ogni forma di resilienza sia in se stessa una dinamica di tipo supereroico. Senza parlare del fatto che tutto questo ragionamento rende ancora più interessante, intrigante, come un thriller, la questione del messianismo supereroico: chi salva il mondo, è chi, a sua volta, si è salvato da un’immane catastrofe. È uno che ha fatto ritorno dal regno dei morti. È un rinato, un resuscitato. E qui la linea del messianismo pop sembra ricongiungersi con quella del modello cristico, chiudendo definitivamente il cerchio.
In ogni caso, il rispetto di questi due principi guida farà sì che, a poco a poco, la sopravvivenza, assicurandosi in se stessa, cominci a uscire dal suo bozzolo emergenziale e si stabilizzi in qualche inedita forma di routine. Dal suo torso rudimentale si vedranno spuntare le ali embrionali di una nuova forma di vita, armonizzata o, almeno, resa compatibile con quello che resta del mondo. I film post-apocalittici – una vasta fetta di produzione cinematografica attuale – ci raccontano questo. E, come si sarà notato, quello che raccontano non ha la consistenza dello storytelling, trattandosi piuttosto di qualcosa che ha a che fare con una dimensione cognitiva e comportamentale: è una forma di razionalità pratica, un kit mentale, fatto di una serie di schemi di condotta, pronto per essere usato in caso di catastrofe. Una dotazione di cui evidentemente oggi sentiamo il bisogno, sentendoci costantemente esposti a una minaccia apocalittica (la sensazione di una “minaccia apocalittica permanente” potrebbe invece avere a che fare con un certo storytelling: ci torno). Ma allora, se una simile quantità e varietà di film – e non parliamo di film d’essai ma di prodotti destinati a un vasto pubblico – da anni ci propina una lezione su come pensare e agire in tempi di catastrofe, ebbene, domandiamoci, perché questa lezione, ripetuta fino alla noia, sembra non essere servita a un beneamato nulla? Perché ha l’aspetto di una specie di macchina disattivata? Perché, proprio quando ne avremmo più bisogno, non sembriamo in grado di attaccarla alla corrente e farla funzionare?
La realtà è questa: con tutti i suoi film post-apocalittici, Hollywood avrebbe dovuto funzionare come una potente agenzia educativa per i sopravviventi del futuro (o del presente? e di quale presente? siamo certi che la catastrofe si presenti solo “oggi”? che non ci siano in giro, da tempo, dei sopravviventi? e che magari, a furia si sopravvivere, qualcuno di essi non abbia già cominciato a sperimentare altre forme di vita?). Invece no. E proprio le domande poste sopra, tra parentesi, lo confermano: brancoliamo nel buio. Non solo Hollywood con i suoi film non ci ha insegnato nulla, ma ha persino funzionato come la più potente macchina diseducativa che si possa immaginare, per un’umanità che dovrebbe fare i conti con la fine del mondo, la sopravvivenza e l’invenzione di altre forme di vita. Perché? Ecco una riflessione che meriterebbe di essere fatta. Ecco una discussione che meriterebbe di essere affrontata.
Per cominciare a rispondere a tale domanda, che a dispetto della sua apparenza banale, aneddotica, ha invece delle implicazioni politico-culturali enormi, direi questo: Hollywood è grande industria, quindi produce in modo standardizzato e seriale; e siccome i prodotti che escono dalle sue fabbriche sono film, finzioni cinematografiche, la sua materia prima, che è la realtà stessa, è sottoposta a un processo industriale di mediatizzazione e di spettacolarizzazione. La realtà delle catastrofi, con le relative regole di sopravvivenza, è trasformata, tutti i giorni e massicciamente, nel reality show delle catastrofi. Questo produce delle conseguenze di cui è difficile sottovalutare la portata. La prima è che l’evento catastrofico, in quanto cesura tra il mondo di prima e quello di dopo, diventa il film continuo della catastrofe (o il film della catastrofe continua) e così è percepito, appreso da chi lo osserva. Lì dove doveva esserci un taglio, dal quale l’eterogeneità fra il prima e il dopo avrebbe continuato a sgorgare, appare invece un flusso “omogeneo e senza soluzione di continuità” tra il prima e il dopo. Per la semplice ragione che, al cinema o sul divano di casa, assistiamo a uno spettacolo che è in fondo, al tempo stesso, il sequel e il prequel di infiniti altri film analoghi. L’evento catastrofico – già accaduto, che sta accadendo adesso o che potrebbe accadere domani, poco importa – si trasfigura in un’attesa infinita dell’apocalisse a venire (paesaggio ideale, tra l’altro, sul quale stagliare ogni forma di messianismo supereroistico). Questa trasfigurazione è la vera catastrofe! Una catastrofe totale, un disastro a tutti i livelli: cognitivo, pratico, culturale, antropologico… E politico! Beninteso. Il film della catastrofe continua – della catastrofe che accade solo come appendice della precedente e come preludio della successiva – non è forse l’essenziale di ogni discorso di “governo”? Non è forse l’atmosfera politico-culturale nella quale siamo immersi, senza possibilità di fuga? E da quanto tempo? Dal tempo di quale “crisi” e di quale “stato di necessità” o di “emergenza” brandito per affrontarla? Non lo ricordiamo nemmeno più… Non ci siamo accorti che, ormai da un pezzo, con uno di quegli astuti colpi di mano che caratterizzano la ragione storica, il vecchio sol dell’avvenire è stato sostituito dalla notte dell’avvenire?
In entrambi i casi, quello che viene tolto, sottratto, confiscato, è la cruda realtà del presente, e il furto è tanto più grave quanto più il presente è catastrofico: il qui e ora costituisce, infatti, l’unica zattera a disposizione del sopravvivente, il misero ma incomparabilmente prezioso pezzo di legno al quale le sue dita si abbarbicano giorno e notte come artigli di tigre. Il film continuo della catastrofe ci paralizza rendendoci docili e governabili. E ci impedisce di fare l’unica cosa che gli stessi film post-apocalittici continuano a ripeterci instancabilmente: non perdere tempo, non attardarsi a contemplare le rovine del passato, saltare subito giù dalla finestra, lasciarsi la catastrofe alle spalle e incamminarsi sull’esile striscia di terra, che noi stessi contribuiamo a inventare con i nostri passi incerti, tessendo relazioni con tutto quello che ci circonda, pietre, piante, animali, uomini, in un mosaico precario e in continua evoluzione. In questo modo cambia tutto. Ma veramente tutto. A differenza del film continuo della catastrofe, infatti, il taglio della catastrofe ci “attiva”, implicandoci direttamente nella creazione di una serie di montaggi inediti (ambientali, sociali, spirituali ecc.), necessari per la nostra sopravvivenza, e in questo modo, anche nello stato di più grande necessità, ci rende sempre più “autonomi”. È l’alba della sopravvivenza, dalla quale, se tutto va bene, potrà forse sorgere il mezzogiorno di una nuova forma di vita.
Dopo anni di film hollywoodiano-governativi, oggi ci risvegliamo con una desolante constatazione: non ci sappiamo fare con le catastrofi. Non abbiamo il savoir-faire della catastrofe. Mentre dovremmo averlo, e non da oggi. La base di tale habitus, che forse è anche un ethos, è la capacità di mettersi la catastrofe sempre alle spalle, non davanti come un’eterna minaccia che aspetta chissà quale messianica salvezza. È la capacità di pensare, parlare e agire come se ci si fosse già messi in marcia da un mondo che non esiste più. È la capacità di dire, di sentire, che l’esodo è già cominciato. Che il “domani” è già cominciato. Questo non vuol dire che una nuova catastrofe non possa accadere. Ma vuol dire che, anche nel caso in cui accadesse, ci troverebbe forse già istruiti, rispetto alla capacità di sopravvivere, e magari in cammino verso un altro mondo possibile. O forse il fatto di essere già in cammino, pur non evitando il prodursi di un nuovo disastro, potrebbe rendere meno tossica la sua manifestazione, o indurci persino ad accoglierlo come qualcosa di stranamente “amico”.
In realtà, nonostante Hollywood, questo “domani” esiste. Anche cinematograficamente. Demain è, infatti, il titolo di un film documentario uscito nel 2015. Il punto di partenza dei suoi realizzatori, Cyril Dion e Mélanie Laurent, è stato questo: tutti parlano di catastrofe, di fine dell’umanità, d’accordo; ma se andassimo in giro a cercare chi ha già cominciato a inventare forme di vita alternative, come se l’apocalisse avesse già avuto luogo? Ne è venuta fuori una sorta di road movie dall’“altro mondo”, che prende alla lettera l’insegnamento (mancato) di Hollywood, mostrando che una realtà post-apocalittica, qui e ora, è possibile, esiste, ed è fatta di tante esperienze creative, ricche, vitali. Resterebbe da realizzare un Domani 2, andando a intervistare gli “esperti” della catastrofe, che vivono ai margini o nel sottosuolo delle nostre società, oppure che oggi, in tante parti del mondo, fanno l’esperienza delle guerre, della fame e delle migrazioni. Ne trarremmo lumi altrettanto interessanti.
In un periodo ad alto tasso catastrofico come gli anni 20-30 del secolo scorso, l’Europa stretta nella morsa tra l’immane carneficina della Prima guerra mondiale e l’avvento del nazifascismo che sfocerà nello Sterminio e nella mattanza della Seconda guerra mondiale, Walter Benjamin, che di catastrofi e di messianismo se ne intendeva, confezionò, a uso delle generazioni future, un personale kit di sopravvivenza, realizzato attraverso la straordinaria animazione cinematografico-speculativa dell’acquerello di Paul Klee Angelus Novus.
Ed è proprio alla penna di Benjamin che dobbiamo forse il monito dei moniti – un monito che è insieme appello – per chi abbia sensibilità per le catastrofi e attenzione per le strategie di salvezza: “Che ‘tutto continui così’ è la catastrofe!”.