di Silvia D’Autilia
Mi chiamo Silvia. Ho 31 anni e no, non avevo mai assistito prima d’ora a un dramma simile. La pandemia di Covid19 ha messo radicalmente in discussione le nostre “sicurezze”, la perfetta aderenza che regnava tra le nostre esistenze e le certezze che le avvolgevano. Le routine, gli impegni, le abitudini sportive e mondane, la vita sociale, lo svago, i vizi – o molto semplicemente una passeggiata all’esterno. Mai come oggi quel “fuori” ci manca, ha assunto la fisionomia di un’eccezionalità, perdendo la sua “scontatezza”, la sua ovvietà di pratica banale e spontanea. Uscire di casa è divenuta un’esigua concessione da consumarsi il più velocemente possibile, senza scambi o relazioni, con le dovute distanze e protetti dagli appositi dispositivi. Eh sì, abbiamo dovuto imparare che siamo facilmente infettabili e che possiamo facilmente infettare. È il paradosso del virus: dobbiamo simultaneamente comportarci sia come se lo avessimo già contratto e non dovessimo – per dovere morale e sociale – contagiare il prossimo, sia come se non lo avessimo ancora contratto e dovessimo quindi assumere tutte le precauzioni possibili a far sì che questo non avvenga. A stare al centro di questa vicenda bislacca c’è il corpo, che come un pendolo oscilla tra il rischio di essere vittima e quello di essere carnefice. È un corpo nuovo, di cui si è colta, dopo tanti anni di “sana e robusta costituzione”, l’estrema vulnerabilità. La sua fragilità al cospetto di una presenza estranea, non ancora addomesticata. Come quando a una festa affollata ti salutano ma non riesci bene a mettere a fuoco il tizio, e allora indugi nel ricambiare l’approccio. Pensi: “E questo chi è? Sta salutando proprio me? E perché?”. Insomma non siamo preparati. Non eravamo pronti.
Mi avessero fatto vedere un trailer, mi avessero fornito una minima preparazione sulla faccenda, non avrei comunque saputo zittire il vortice di domande e dubbi, la sete di informazioni per capirne di più. E poi: come modificare repentinamente una quotidianità ben strutturata e studiata? Come ricalibrare la gestione di lavoro, figli e abitudini? E potrei continuare a iosa, perché -si sa- entrando nei labirinti dell’interiorità non è mai garantita l’uscita. “Vasto è l’uomo, troppo vasto, io lo farei più ristretto” ammoniva Dostoevskij. Invece nessun trailer, nessuna preparazione a tutto questo: una manciata di servizi di cronaca sono bastati a catapultarci in una realtà che appare ogni giorno tutto fuorché effettivamente reale.
Le restrizioni hanno trovato grosso modo una sintesi nell’invito a restare a casa, prontamente riprodotto nell’hashtag #iorestoacasa da parte di social network, programmi radiofonici, d’intrattenimento e dibattito, notiziari, giornali e telegiornali. Nel giro di qualche settimana non uscire di casa si è trasformato nel cuore dell’ubbidienza sociale e del rispetto legislativo per non incorrere in onerose sanzioni. Anche questo è un dettaglio nuovo con cui le coscienze hanno dovuto familiarizzare: il rapporto infrazione/punizione, connesso al banale e fugace abbandono delle nostre abitazioni senza giusta motivazione, è divenuto un problema collettivo. Una dimensione della legge del tutto sconosciuta. Impensabile fino a soli due mesi fa. Non è poco. Fosse ancora in vita, Freud probabilmente avrebbe aggiunto un ulteriore capitolo a Il disagio della civiltà, mostrando come la tutela di un bene superiore, qual è la salute pubblica, stia dando a molti l’occasione di fare i conti con quei comportamenti che la nostra società cerca così faticosamente di “contenere” e sublimare in pratiche considerate “consentite” e/o “virtuose”.
Per dire che questo sacrificio, restare a casa, piccolo o grande che sia, non è scevro di ripercussioni nel microcosmo dei singoli individui. Microcosmo individuale che ormai, vista la situazione di emergenza che stiamo vivendo, sarebbe meglio definire “residuo d’individualità”. L’individuo infatti, considerato nella sua dimensione privata, intima, soggettiva è ormai palesemente considerato nulla più che un margine. L’ultimo pensiero della lista. Il fanalino di coda delle preoccupazioni sociali. Si sta ovviamente facendo riferimento all’individuo nel suo aspetto soggettivo. Lo stesso individuo che, nel suo aspetto oggettivo – con gli spostamenti del suo corpo, e le sue “azioni” – è invece il centro, il fulcro di tutta l’attenzione mediatica e il continuo bersaglio dei provvedimenti anticontagio. Questo soggetto “oggettivo” è anche troppo al centro della scena, io invece voglio parlare di quel soggetto-pentolone di paure, riflessioni, contraddizioni, sbalzi d’umore e tormenti. Un soggetto con cui ciascuno di noi in questi giorni si è dovuto confrontare, che ciascuno di noi si è trovato dinnanzi, cercando più o meno con successo di domarlo, di tenerlo nelle briglie dell’autocontrollo.
Ma non si tratta solo di tentativi. Diverse volte ho nutrito il sospetto che si trattasse piuttosto di una silenziosa ingiunzione – da parte dei media, della politica delle persone – a non pensare troppo, ad (auto)controllarsi e persino a censurarsi se necessario. E come? Semplice. Con un manto fitto e uniforme di ottimismo, di “andrà tutto bene” pronunciato da finestre, balconi e da disegni, commissionati dai genitori ai figli. Una litania scandita a pieni polmoni, un’opera di autoconvincimento personale e sociale che si dispiegava proprio nello stesso momento in cui i morti non facevano che duplicarsi e triplicarsi.
Ma perché? Perché, pure di fronte alle conclamate ed evidenti catastrofi, ostentare visioni rosee, facendosi profeti dell’happy ending? Mi sento a disagio, perché davanti a una schiera compatta di opliti dell’ottimismo io ho paura, ho pianto diverse volte, mi sono preoccupata e interrogata sul futuro mio, dei miei figli, della mia famiglia. Temo e ho temuto che le cose non si potessero risolvere così facilmente, e non importa se in riferimento al fronte economico, sanitario o politico. Ho avuto paura in generale, quella paura che è la più spaventosa di tutte, perché non è catalizzata né finalizzata, e che irrazionalmente s’insinua e colonizza i pensieri, le percezioni e perfino il rapporto col tuo corpo. “Somatizzazione” dicono i medici. Dalla radice greca σῶμα, corpo: il fenomeno per cui un malessere mentale tende ad avere ripercussioni su alcuni distretti fisici. Bene, grazie per la diagnosi e per le due ricette di miorilassanti prescritti. C’è altro? “Si concentri sulla fede che aiuta”. Giusto, quella fede che già intravede un ritorno alla vita di sempre o a una vita perfino più gradevole di prima, poiché ne usciremo cambiati, migliorati, affermano. Posto che non sono una demolitrice delle credenze religiose, poiché credo fermamente nell’importanza della cura spirituale di sé, la domanda è la seguente: è così sensato, in una situazione come questa, indossare i panni del fiducioso a prescindere? O meglio: è giusto insabbiare l’esplicitazione dei nostri stati d’animo, ivi compresa anche la paura appunto, subordinandoli alla previsione di un esito provvidenziale e benevolo? Perché tutto questo “positivismo” senza prima aver fatto i conti con quanto stiamo realmente provando? Si sa, la risposta ha a che fare col fatto che vedere le cose con occhi fiduciosi aiuta ad attraversarle. D’accordo. Ma la stessa prospettiva, oltre a fornire in dotazione l’anestetico distraente e rasserenante, permette altresì di sviluppare consapevolezza della situazione? Di ascoltare i nostri stati d’animo, riconoscerli, pronunciarli e raccontarli? Se l’isteria non è la soluzione, non lo è nemmeno raccontarsi come automi che #andràtuttobene.
La verità è che quanto stiamo vivendo in questa pandemia appare ogni giorno di più una coerente prosecuzione senza interruzioni delle nostre vite pre-Covid19. Siamo così abituati a non “smaccarci” mai – a non ammettere la possibilità di un passo falso, di una sconfitta – che persino in questa situazione dobbiamo fare gli stay positive. Con sicurezza e animo tronfio crediamo a una sequenzialità temporale e storica inevitabilmente orientata verso il progresso e il successo. Non c’è mai una virgola stonata o fuori posto. Mai qualcosa su cui fermarci. Alla vigilia della diffusione del morbo ci credevamo liberi, forti, sicuri, a tratti onnipotenti, e un esserino a stento visibile al microscopio ci ha paralizzato la vita. Ci hanno detto che è molto contagioso, che può essere sia innocuo che pericolosissimo, che attacca maggiormente gli adulti piuttosto che i bambini, che può permanere su oggetti e superfici per un certo lasso di tempo, che può produrre sintomi lievi, gravi, gravissimi e perfino nessun sintomo, che proviene dagli animali anche se la modalità di trasmissione all’uomo non è ancora chiara, che probabilmente con la bella stagione calerà la sua virulenza, ma che – in compenso – potrebbe ritornare, presto o tardi, a sorprenderci di nuovo. Negli ultimi giorni, in cui tutti abbiamo atteso trepidanti che arrivasse questo benedetto “picco”, girava in rete un meme ispirato al Teatro dell’Assurdo di Beckett: Godot arriva finalmente al cospetto dei due protagonisti, i quali di tutto piglio però gli replicano “veramente noi aspettavamo il picco”. Una battuta per dire che siamo di fronte a un nemico che non conosciamo, che non è stato ancora raggiunto dalla diligenza puntuale della tecnica, l’egida valorosa di cui il genere Homo sapiens si fregia come del suo più bel trofeo.
E allora a che pro sfoggiare tanta fiducia nel futuro? Perché non guardarsi molto più onestamente negli occhi e occuparsi di quel soggetto turbato e preoccupato che siamo, così rapidamente messo a tacere dall’edulcorante della positività? Certo, in una tale situazione di emergenza sono ben altre le priorità di cui occuparsi, si dirà. E poi, in fondo, ci viene richiesto solo di restare a casa, mica per questo impazziremo! “I nostri nonni hanno vissuto la guerra, rischiando la vita”, si è più volte pontificato. Ebbene credete davvero che il paragone stia in piedi?
La maggior parte di coloro che fanno questi sciocchi parallelismi sono persone che la guerra la conoscono solo “raccontata”. Non ci rendiamo nemmeno più conto che la storia vissuta e la storia raccontata non sono la stessa cosa. Se studio la battaglia di Caporetto posso certamente rivivere l’evento in termini storico-letterari, traendone i relativi insegnamenti, ma non posso certo riviverne l’emotività. Se proprio dobbiamo fare questo paragone possiamo pensare alle molte guerre che accadono ora, in questo istante, e alle molte morti in mare che, ora, continuano a lasciare indifferenti la maggior parte di noi.
Ma quando si tratta di far ingoiare bocconi amari, chissà perché, si ha sempre bisogno di tornare ai “miti” della nostra storia. L’evocazione dei nostri nonni alle prese con la guerra, oltre a essere un paragone chiaramente sbilanciato, in fondo, non è che un altro sotterfugio per zittire questo soggetto intimo, la sua paura, la sua angoscia, che non deve essere raccontata e socializzata, perché le persone potrebbero abituarsi a farlo sempre, e questo sarebbe un problema di ordine politico. E se poi vogliamo dirla tutta, non è la storia a volere che si penda dalle labbra del passato per alleviare il peso delle sofferenze correnti. Non è una tachipirina. Desidera al contrario che la conoscenza del passato veicoli un costante senso critico per tutte le situazioni che nel presente si verificano; desidera che i suoi insegnamenti ci rendano davvero uomini e donne “consapevoli”, in primo luogo di ciò che vivono. Desidera realismo, onestà e sguardo profondo, analisi e autoanalisi, soprattutto verso un virus, microscopico e imprevisto, venuto a dirci quanto siamo fragili.