di Stefano Tieri
Chissà se al sindaco di Trieste Roberto Dipiazza saranno fischiate le orecchie, durante la messa in scena di “Peachum – Un’opera da tre soldi”, al Teatro Rossetti dal 9 al 12 dicembre. Impossibile, per lo spettatore, non cogliere i legami tra la rilettura della celebre “Opera da tre soldi” di Brecht e il contesto politico dell’Italia del nuovo millennio – schiacciata tra razzismo, rabbia sociale e la strenua difesa degli interessi di classe (ovviamente borghesi).
Ma facciamo un passo indietro. Il protagonista dello spettacolo, scritto e diretto da Fausto Paravidino, è Jonathan Geremia Peachum, esponente della piccola borghesia bottegaia che “confonde la vita con la contabilità”, proprietario di un negozio che vende costose borsette, piazzate dall’imprenditore in parallelo anche sul mercato nero grazie al lavoro sottopagato di alcuni giovani migranti. Incarnato magistralmente da Rocco Papaleo, Peachum è un “ragioniere della vita che rispetta le regole”. Il problema, semmai, è che le regole sono sbagliate: come osserva il regista, “tutti sono impegnati nella guerra dei ricchi contro i poveri. Anche i poveri”.
Della famiglia Peachum fanno parte la moglie Costanza, interpretata da Barbara Ronchi, stereotipo della donna della classe media la cui occupazione principale (quando non lavora nel negozio di famiglia) è andare in un centro benessere insieme alle amiche; e la figlia Polly (Romina Colbasso), a cui si devono alcune delle entrate critiche più forti, rivolte ovviamente contro il padre e il modello sociale da lui rappresentato. Oltre alla famiglia Peachum, nel fronte dei ricchi abbiamo infine la sindaca Rosalba (Iris Fusetti), tutta legge e ordine, con alle spalle un passato (?) neonazista ed eletta grazie al supporto della borghesia cittadina, che la tiene metaforicamente al guinzaglio.
Dall’altro lato, a rappresentare i poveri, abbiamo – oltre ai venditori ambulanti sfruttati da Peachum (Daniele Natali e Federico Brugnone) – una banda di naziskin (Daniele Natali, Barbara Ronchi e Iris Fusetti) capitanati da Mickey (interpretato dallo stesso autore e regista Paravidino), prodotti di una borgata di periferia, frutto di quel che i borghesi chiamerebbero, con altezzosità e sufficienza, “degrado”.
Gli ingredienti non potrebbero essere più esplosivi – e infatti la bomba si innesca subito, con la miccia che viene accesa da Polly e Mickey, innamorati a prima vista l’uno dell’altra. Per far colpo sulla ragazza, Mickey dice alla sua banda di andare a prenderle un regalo: sarà ovviamente una delle borsette di Peachum, vendute in strada – per usare le parole dei nazisti – da “un negro”, che finirà brutalmente decapitato. Da lì partirà una vorticosa caccia all’uomo fortemente voluta da Peachum, che non sopporta questa intromissione nei suoi affari e che, al tempo stesso, vuole tenere sua figlia lontana dal neonazista Mickey, ritenuto da subito responsabile dell’omicidio. Spalleggiato a malincuore dalla sindaca Rosalba, che di Mickey è una vecchia amica, la trama prenderà via via una china sempre più violenta, arrivando all’esplosione finale.
L’atmosfera punk, arricchita dalle scene di Laura Benzi e le musiche di Enrico Melozzi, dà vita ai bassifondi di una città che brucia, cui fa da contraltare l’interno di casa Peachum, asetticamente perfetta con le sue lampade a muro e le pareti bianche.
Proprio da questo perturbante bianco emergerà un’altra forma di violenza, che si oppone solo apparentemente a quella più visibile e brutale dei neonazisti: una violenza più subdola perché invisibile, scontata, ordinaria (ma, dopotutto, è proprio di Brecht la massima “quel che è normale, trovatelo strano”): la violenza della classe egemone, che perpetua con il beneplacito della politica un modello economico che crea emarginazione, subalternità e sfruttamento. La stessa borghesia che, un secolo fa, abbracciò con entusiasmo il nazi-fascismo – paradosso sbattuto in faccia a Peachum dalla figlia: “Tu oggi non sei un nazista perché non ti conviene, ma negli anni Trenta lo saresti stato”.
Quando, alla fine, crollerà la quarta parete, lasciando al pubblico la possibilità di dare un giudizio su Mickey, non sorprende allora la risposta che arriva. Un pubblico vecchio dentro, in una città altrettanto vecchia come Trieste, non potrà far altro che condannare Mickey per sbatterlo in prigione a marcire, insieme agli altri scarti della nostra società – che siano migranti, precari o “estremisti”. Dopotutto siamo la città del Dipiazza quater, sindaco che nel vicino 2018 andò a portare i suoi calorosi saluti al raduno neofascista di Forza Nuova, senza poi nemmeno pentirsene.