di Simone Raviola
(Illustrazione di Giorgia Loliva – weshstudio)
È un mondo della morte – un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi.
Roberto Bazlen
Il tempo della cura
Il nome della nostra epoca è “cura”, il suo essere “vita”. Non si tratta di una questione semplicemente sanitaria. Le pieghe attraverso cui la questione si apre e si chiude, si mostra e si cela, sono molteplici. Tuttavia, con metodo e dedizione, è possibile isolare un nodo in cui tutte le fila s’intrecciano trovando il loro senso. La malattia, o disfunzionalità nel lessico della contemporaneità, è condannata a priori; l’invasione di psicofarmarci, terapie, yoga e libri di self help nel mercato dei beni di massa ne è il sintomo più lampante. La cura è oggi l’ennesimo prodotto da consumare, afflitti come siamo dalle perverse e distorte metastasi del desiderio.
«La salute come bene economico», scriveva Gottfried Benn nel 1931, «sei nuovi istituti con uno stanziamento di due milioni di dollari per la ricerca volta a sostenere i vasi e la circolazione sanguigna: un affare economico che permette di rinviare di dieci giorni in media l’inizio dell’inabilità lavorativa e quindi si ammortizza come un investimento al quattro per cento». Quanto conta una malattia? La salute si razionalizza, se ne fa dunque una ratio, un calcolo. Il corpo e la mente vengono messi a rendita, territorio di contesa e di profitto. «Inoltre», continua Benn, «il vago, nervo delle forme di labilità, della frequenza nei bisogni fisici e delle nevrosi intestinali -: mense con alimentazione ricca di calcio, terapia stabilizzante, tutto detraibile dalle dichiarazioni dei redditi come reinvestimento, calcolato dal punto di vista dell’industria, significa un aumento di cavalli vapore del 3,27 per cento».
Se qualcosa non funziona – l’emotività, il rapporto con gli altri, il rilascio di serotonina – il faut prendre soin de soi. La terapia diventa d’obbligo, lo psicologo pediatra e il pediatra psicologo. La cura è a portata di mano, requisito primo per una vita degna di essere vissuta.. La pena unica e inappellabile per il mancato adempimento è di carattere sociale e si declina nei termini di tossicità (il prezzo di una asocialità che la comunità-capitale non è disposta a pagare). I pharmakoi: paroxetina, sane lettura, una dieta equilibrata, benzodiazepine, ginnastica, il giusto psicanalista, litio e ketamina. Da tenere a bada sono le turbe fisiologiche, certo, ma ancora di più gli sconvolgimenti psichici. Il motto “mens sana in corpore sano” si raddoppia, invertendo i sostantivi e sottolineando l’aggettivo. Cambiando gli addendi il risultato non varia. E la vulgata contemporanea ne è consapevole: corpo e idea, mente e cervello sono solo due lati di una stessa sostanza di reddito. Ogni cosa si analizza e calcola in ottica di una migliore efficacia: produttiva in senso stretto, ma non solo. Si pensi ai termini “lavoro emotivo”, quanto costa un cervello incapace di comunicare? Quante energie sono spese, socialmente, per integrarlo in un tessuto relazionale? Allora, delle due l’una: o è il dispendio si riconverte viene fatto rientrare nei circuiti della green economy, perché la malattia produce sapere, conoscenza, innovazione, o deve essere addomesticata.
L’epoca della cura, «dove il dolore è molesto come una mosca contro la quale si prepara uno scacciamosche, dove il dolore viene come un eczema e se ne va come pelle che si squama, dove il problema emotivo viene posto davvero come cercano di porlo gli utilitaristi per l’umanità: i sentimenti sono una scala unitaria che si estende uniformemente a partire da un punto zero o anche il reciproco di un rapporto che loro possono poi manipolare con gran zelo, conteggiandolo all’attivo grazie ai loro interventi di bonifica -: rapsodia di intere generazioni» (Gottfried Benn). La retorica del desiderio è chiara: amore moderato, raziocinante ed rigorosamente ad happy ending; sia mai che il desiderio non s’intossichi, che l’amore non si faccia tossico. Con buona pace di Plauto e dei suoi amantes amentes. Con buona pace del felice spreco del godimento, dello svuotarsi ovvero dello spruzzare orgasmico. Tassonomia statistica dell’amore, contabilità del sesso: una società allo sbaraglio. O meglio, una società pornografica che rifiuta consapevolmente ogni forma di ambiguità o dramma (ossia i principali ingredienti dell’erotico).
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La rimozione del negativo (ovvero della sua eternità)
Il presupposto del “discorso terapeutico”: la vita è l’intero, la malattia il suo motore. Mai angelo della morte, la malattia vive in vista di un nuovo possibile utilizzo. Ogni negativo non è allora che la falsa ombra di un possibile positivo: non possibile-impossibile, annichilazione assoluta, ma possibile reale – virtuale a portata di gocce. La tragedia della vita – il canto di Eschilo, Sofocle e Euripide – è un errore prospettico, un difetto di valutazione, un delirio umano, troppo umano: «il venir meno della coscienza del tragico come il tramonto della nostra cultura» (Gottfried Benn). Come in ogni epoca tarda, anche la nostra civiltà si veste di senso comune stoico, quando va bene. Molto più spesso è l’epicureismo da bar di paese che imperversa.
Eppure, una voce che sale dai grandi della nostra tradizione racconta tutt’altro. La malattia, forse, è l’intimo fallimento che consegna l’esistente al suo proprio inappropriabile: la morte. La malattia svela quel vuoto abissale contro cui si può stagliare solo il silenzio, o la preghiera. Messaggero di quell’assoluto intoccabile, la malattia distende, annichilendo tutte le potenze dinamiche. Supini e sudati, ci rigiriamo tra dolore, impotenza e pensieri funesti. «Dolore, pugno contro il pamphlet della vita che viene dal muso sfrangiato delle democrazie edonistiche, dolore, caos che spazza e annienta fin nel profondo i campi irrigati della ratio borghese e con la sua distruzione obbliga il cosmo a prendere una nuova piega, – parola che viene da regni in cui impera il destino e dal più rabbrividente accadere del genio – gazzarra prostituita, quando l’utilitarista ti strumentalizza per le discrasie dell’uomo medio» (Gottfried Benn). Come amava ripetere un mio maestro: la cura lasciamola alla curia e ai curati (e agli psicanalisti, aggiungiamo, braccio destro dell’economia sanitaria contemporanea).
Oggi, dunque, è la vita al centro della nostra vita. E non serviva certo la biopolitica per apprendere la verità del nostro tempo: «Accanto al verso di Schiller “La vita non è il supremo dei beni”, si trovano solo poche riserve critiche di questo tipo. La vita: qui la razza bianca trema, è l’ultimo puntello di fede del momento presente, del nostro ambito culturale» (Gottfried Benn). Per quanto possa suonare strano, non è sempre stato così. «Muore giovane chi è caro agli dei» (hon oi theoi philusin apothnēskei neos, Menandro) cantavano nel V secolo. La vita era allora sottoposta al coraggio, alla legge, al destina. La strana escrescenza del medio-oriente, la Grecia antica, giocava con la vita molto più di quanto noi oggi siamo disposti a fare. Primitivi? Coloro che inventarono la geometria, la filosofia, la democrazia, possiamo davvero chiamarli retrogradi, incivili? Chi sono i barbari in questo sganciamento temporale? In ogni caso, «solo da noi, nello spazio di certi gradi di latitudine», e in certi istanti dell’orologio cosmico, la vita «è diventata il concetto determinante e fondamentale davanti al quale tutto si è fermato, l’abisso nel quale, nonostante si trascurino altri valori, tutti si gettano ciecamente, si trovano solidali e tacciono commossi» (Gottfried Benn).
Idea da pensare, Dio da pregare, Ragione da applicare e ora, infine, Vita da curare: questi sono gli “invii” dell’essere che hanno dominato l’Occidente. Nomi dell’essere che però vanno letti a partire da ciò che essi non sono: l’essere stesso (o, meglio, il suo “senso”, la “sua” direzione e il “suo” transito). La cura è l’ennesimo supplemento d’incapacità, figlia bastarda che rinnega la propria provenienza. La cura è il rifiuto consapevole di vedere ciò che la malattia come simbolo ci indica: l’inquieto abisso su cui passeggiamo quotidie. La morte che dona la vita, gratuitamente. E che altrettanto gratuitamente la toglie, la solleva. È questo l’abisso in cui una vita diventa degna. Lì l’essere transita nel suo senso (passa cioè da modalità storica contingente a necessità temporale ma priva di storia) e lì la vita, nel suo dolere, si apre a sé stessa. Dolore, malattia: «parola che viene dal regno in cui impera il destino». Il rapporto tra la malattia e l’abisso, il dolore e la morte è lo stesso che lega bellezza ed essere in Platone: «il bello è questa cosa in sé contro-versa (gegenwending), coinvolta nella parvenza sensibile immediata, ma che al tempo stesso si eleva all’essere» (Martin Heidegger). Da Fidia a Francis Bacon, dal bello alla malattia, dall’essere alla morte: niente di nuovo sul fronte occidentale, se a valere è l’analogia – il tessersi dei rapporti – e non ciò che così viene rapportato. La sofferenza e la bellezza sono le porte che conducono alla verità della vita, questo abbiamo imparato.
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Che fare?
Il nulla, la morte da cui proveniamo e verso cui ci dirigiamo, va certamente “curato”, il che significa prestarvi attenzione, ascoltarlo: la «radice indoeuropea da cui [la cura] trae la linfa originale, ha significato di un prestare attenzione, di un guardare». Cura significa paziente ascolto, un lento soffermarsi. Attesa e attenzione, dunque. Guardare la malattia, per proteggerla: cos’è la vita se non la guardiana – la santa custode – della morte? «E avere accordato a qualcosa un’attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schermo tra essa e tutto quanto può minacciarla, in noi e al di fuori di noi. E avere assunto sopra se stessi il peso di quelle oscure, incessanti minacce, che sono la condizione stessa della gioia» (Cristina Campo). Senza terapie valide, se non forse quella che non ambisce a utilizzare – ingombrando – ma a fare spazio, distogliendosi; lasciando che l’abisso sopra il quale l’uomo tesse la tela della sua vita non venga oscurato a sua volta da nulla, né la trasparenza della ratio né la medicina ne sono degni simboli. Perché la vita non ha senso e questa assurdità non può essere curata, solo, forse, pensata, meditata; senza alcun rimpianto come scriveva Emil Cioran: “l’irrazionalità della vita è l’unica ragione valida per viverla”. Appiattire la malattia sulla salute significa svuotare l’esistenza della sua trascendenza, del suo essere sempre non coincidente con sé poiché costantemente attraversata e composta dalla morte. Ogni cosa è incalcolabile, ivi compresa la malattia. Attenti, attendiamo che il destino si compia – senza alcuna pretesa, senza alcuna appropriazione indebita di ciò che non è di nessuno perché è condiviso da tutti.
Pensare la folle scintilla dell’esistenza e curarsi del nulla, per vivere felici. «Mi prendo cura della vita. La grande notte del mondo quando ancora non c’era vita» scrive Clarice Lispector.
Una felicità che nulla ha in comune con la soluzione, l’accordo, con il contratto stabile e razionale, con l’utilizzo; alla certezza del compito corrisponde infatti la consapevolezza che ogni pensiero terapeutico è destinato a vivere nel e del conflitto e ad esaurirsi, certo, ma ad esaurirsi soltanto nell’implosione di ogni forma, nel tempo disumano della fine dei tempi, nel fuoco di una tempesta universale che nulla ha da spartire con l’uomo, le sue manie e le malattie che infine lo animano e lo muovono. «“Sotto il celeste terrore / delira per l’unica stella / il cantico dell’usignolo”. Che è come dire, ragazzi, dissi, che vedevo gli sforzi e i sogni, tutti confusi nello stesso fallimento, e che quel fallimento si chiamava gioia» (Roberto Bolaño).
Bibliografia
Benn, Gottfried, Lo smalto sul nulla, trad. Luciano Zagari, Adelphi 1992.
Heidegger, Martin, Nietzsche, cur. Franco volpi, Adelphi 1994.
Campo, Cristina, Gli imperdonabili, Adelphi 1987.
Cioran, Emil, Confessioni e anatemi, trad. Mario Bortolotto, Adelphi 2007.
Lispector, Clarice, Un soffio di vita, trad. Roberto Francavilla, Adelphi 2019.
Bolaño, Roberto, I detective selvaggi, trad. Ilide Carmignani, Adelphi 2014.