di Samo Tomsic
Il “lavoro” dell’inconscio
Leggendo l’Interpretazione dei sogni – il celeberrimo testo in cui Freud per la prima volta teorizza contemporaneamente i fondamenti sistematici del meccanismo inconscio e quelli della pratica analitica – possiamo imbatterci in una curiosa quanto stupefacente metafora forgiata dall’inventore della psicoanalisi. Sforzandosi di esemplificare il rapporto che intercorre tra i pensieri coscienti, il desiderio inconscio e il meccanismo psichico che produce il sogno, Freud non trova miglior metafora da offrire ai propri lettori che quella del rapporto tra imprenditore e capitalista.
“la forza motrice, di cui il sogno abbisogna, doveva essere quindi convogliata da un desiderio; procurarmi un desiderio cosciente che fosse la causa motrice del sogno era dunque la mia premura. Per fare un’analogia, è un po’ come se un pensiero diurno svolgesse per il sogno il ruolo dell’imprenditore; ma l’imprenditore – che, come si suol dire, ha l’idea e l’iniziativa per metterla in atto – non può fare nulla senza il capitale. Egli ha bisogno di un capitalista che si faccia carico dei costi, e questo capitalista – che si fa carico dei costi psichici del sogno – è sempre e immancabilmente, qualsiasi possa essere il pensiero diurno [che esso finanzierà], un desiderio inconscio”.
Uno spirito acuto, e avveduto, com’era quello di Freud non poteva certamente essere ignaro del peso e delle implicazioni di questa non casuale analogia. Egli ne era anzi talmente avvertito da riprodurla in momenti ulteriori, e differenti, della sua opera. Ad esempio nell’analisi dell’isterica Dora (1905) e addirittura, rivisitandola parzialmente, nelle Vorlesungen (1916-17). In questa metafora economica e politica del meccanismo inconscio, Freud aveva intravisto una preziosa chiave divulgativa per rendere comprensibile la propria teoria sia ad un pubblico “scientifico”, sia ai non addetti ai lavori .
In questa citazione inoltre, anche se Freud non vi fa esplicito riferimento, si può scorgere a chiare lettere il nodo teorico fondamentale che distingue l’inconscio freudiano da tutte le precedenti e successive idee di inconscio (filosofiche, psichiatriche, cognitive, magico-occultistiche o junghiane). Nell’Interpretazione dei sogni infatti, come in tutto il resto della sua sterminata opera, Freud pone al centro dell’esperienza dell’inconscio la nozione di lavoro. Il concetto di lavoro è in effetti a fondamento dell’intera teoria freudiana dell’inconscio, al punto tale che essa potrebbe essere definita come una teoria del lavoro produttivo dell’inconscio. Questo snodo teorico-pratico riguardante l’inconscio freudiano è senz’altro gravido di importanti conseguenze politiche ed epistemologiche. La prima di queste è certamente quella che proibisce categoricamente di considerarlo come un buio e profondo luogo in cui giacciono oscure rappresentazioni, eterni fermo-immagine o ricordi scolpiti nella pietra. L’inconscio che andava lentamente svelandosi alle indagini empiriche di Freud era infatti un inconscio che differiva radicalmente da un immobile archivio di fatti, traumi o esperienze sospesi nel passato. A mano a mano che si addentrava nel proprio personale inferno, come egli stesso ebbe a definirlo proprio nell’Interpretazione dei sogni, Freud scopriva l’inconscio come un luogo di produzione, come una “fabbrica” in cui incessantemente (e inconsapevolmente) si produceva qualcosa che egli non poté fare a meno di chiamare godimento. Parallelamente Freud scoprì anche che la produzione di questo godimento richiedeva il dispendio non indifferente di una grande quantità di energie psichiche. Questa scoperta lo condusse allora a formulare, appoggiandosi alle teorie energetiche di cui (forse per molti inaspettatamente) si servì lo stesso Marx, la nozione energetico-materialistica di “forza-lavoro” (Arbeitskraft), concependola come il motore stesso del processo inconscio.
L’aspetto dinamico e materiale dell’inconscio, condensato da Freud nella parola “lavoro”, è irrinunciabile per articolare un’esperienza “scientifica” della psicanalisi in grado di tagliare corto con tutti i magismi e gli occultismi che l’hanno sempre minacciata. Proprio in questo solco storico e teorico, rappresentato dal comune riferimento al “lavoro”, le teorie di Marx e Freud si incrociano una prima volta in maniera inaspettata, e per certi versi stupefacente.
Ma nonostante l’esperienza dell’inconscio freudiano sia evidentemente inscindibile dalle condizioni politiche, storiche, e soprattutto economiche, della società capitalista – e nonostante sia evidente l’interesse di Freud per il concetto di lavoro, connesso all’inconscio – queste premesse teoriche non sono ancora in alcun modo sufficienti per articolare una possibile risposta alla questione etico-pratica che più ci interessa, e che è la seguente: cosa significa logicamente, e politicamente, in questo inedito (ed ennesimo) incrocio freudo-marxiano, mettere al centro del nostro interesse il concetto di “lavoro”?
I “lavori” di Marx e Freud
Da un punto di vista marxista Freud, nella citazione con cui abbiamo esordito, sembrerebbe apparentemente fare sua la prospettiva del cosiddetto homo oeconomicus (alias l’imprenditore). Egli sembrerebbe cioè considerare il rapporto tra imprenditore e capitale alla maniera degli economisti classici, metaforizzando il “lavoro inconscio” come un mero valore di scambio. Una simile concezione del valore del lavoro è però esattamente quella criticata da Marx; secondo Marx infatti ciò che viene comprato e venduto sul mercato del lavoro non è il semplice “lavoro”, ma quello che il filosofo tedesco chiamava forza-lavoro. Potrebbe quindi essere molto utile approfondire i rispettivi concetti di lavoro, in Marx e Freud.
Il concetto marxiano di forza-lavoro circoscrive nitidamente l’intrinseca doppiezza di quel particolare valore che è il lavoro umano. L’implicita differenza tra il valore di scambio e il valore d’uso della forza-lavoro è per Marx (economicamente e logicamente) il motore stesso di quel plus-valore attraverso cui il capitale sembrerebbe magicamente nutrirsi di se stesso.
Il valore “sdoppiato” della forza-lavoro – cioè l’incommensurabilità tra il salario (valore di scambio della forza-lavoro) e la produzione della merce (cioè il valore d’uso che la forza-lavoro ha per il capitalista) – emerge per Marx a tutti i livelli della produzione capitalista: dalla produzione allo scambio, raggiungendo persino il consumo. Il lavoro è quindi radicalmente ripensato da Marx, nella sua critica dell’economia politica, come il consumo – da parte del capitalista – di un tipo speciale di merce: la forza-lavoro.
Il carattere intimamente sdoppiato della produzione genera da un lato, per Marx, valori d’uso (cioè merci e oggetti empirici capaci di soddisfare alcuni dei bisogni umani), e dall’altro un tipo di valore eccedente (il denaro), il valore di scambio, che non soddisfa ad alcuna reale necessità pratica. O almeno così parrebbe, perché Marx ci mostra invece che questo eccesso, apparentemente superfluo, è in realtà il motore stesso del sistema capitalista: questo eccesso è il plus-valore (cioè il denaro, il capitale stesso), che tende insaziabilmente e logicamente verso un’ideale di autonomia assoluta.
Marx giungerà addirittura – nel tentativo di circoscrivere questa pulsione coatta e strutturale del capitalista all’arricchimento indefinito – a coniare l’espressione Bereicherungstrieb. Attenzione però, egli non considerava affatto questa pulsione all’arricchimento come un’afflizione psicologico-morale del singolo individuo capitalista; per Marx questa pulsione all’arricchimento era prima di tutto un dato di struttura. La pulsione (o la coazione) all’accrescimento illimitato di beni (e desideri) può essere considerata un fattore psicologico (e psicopatologico), al contempo individuale e massificato, solo in seconda battuta. Essa è infatti, prima di tutto, implicata dalla logica stessa del sistema di produzione capitalista.
Seguendo questo logica, che Marx riteneva essere la logica stessa del capitale, lo scopo della produzione di merci si risolve interamente (ed esclusivamente) in pura produzione di plus-valore, allontanandosi così – sempre più nettamente – dai bisogni reali che era originariamente supposta soddisfare. In questo rovesciamento fondamentale scoperto da Marx, e colpevolmente ignorato dagli economisti classici, emerge l’inevitabilità strutturale (e storica) della lotta di classe. Il conflitto sociale è logicamente implicato dal sistema di produzione capitalista, ne è paradossalmente il segreto motore. La teoria del lavoro marxiana e la teoria del lavoro inconscio di Freud si incontrano qui una prima volta all’incrocio della parola “conflitto”. Se per Marx infatti non esiste plus-valore senza sfruttamento (e quindi senza conflitto di classe), allo stesso modo, per Freud, nell’economia del lavoro inconscio non esiste produzione di godimento senza conflitto intra-soggettivo.
Cambiando leggermente angolazione possiamo cogliere ora quale sia l’aspetto della critica marxiana che è davvero imprescindibile per la psicoanalisi: il riferimento alla struttura e ad un soggetto impersonale. Nei capitoli introduttivi del Capitale Marx premette chiaramente che il suo lavoro non considera i soggetti empirici o psicologici, bensì le relazioni economico-strutturali che reggono il sistema di produzione capitalista. Il Capitale inizia infatti, non a caso, articolando una logica della produzione che considera gli individui (capitalisti e proletari) come personificazioni di due mere categorie economiche (forza-lavoro e capitale). Solo partendo dall’analisi di questa logica economico-strutturale può acquistare un senso -secondo Marx – ogni analisi particolare e rigorosamente empirica della realtà della produzione o del conflitto sociale.
Il capitalista, in questo senso, è rappresentato nel Capitale come la personificazione della tendenza economico-strutturale del capitale stesso ad accrescersi indefinitamente. Questa sorta di coazione all’accrescimento continuo e indefinito (Bereicherungstrieb) si traduce nel capitalista come un’allucinazione sull’origine del valore: egli inventa la fantasia feticista secondo cui “il denaro produrrebbe denaro”… magicamente. Questa allucinazione, che Marx chiamerà feticismo della merce, si ripresenta a tutti i livelli del sistema di produzione (dalle materie prime, al denaro, ai prodotti finanziari). In contrapposizione alla teoria feticista del valore (denaro produce denaro), la teoria marxiana del valore considererà il rapporto strutturale (e circolare) tra 1) il capitale, 2) le relazioni di produzione, 3) la forza-lavoro ridotta a semplice merce e 4) il plus-valore che risulta dallo sfruttamento della forza-lavoro: il capitale stesso.
Da questa analisi emerge, forse incidentalmente, quello che è il vero soggetto della produzione secondo Marx: non è il singolo lavoratore, né la somma dei proletari, ma piuttosto la forza-lavoro intesa come reale entità discorsiva e logico-strutturale (cioè non-psicologica e non-individuale). Questo soggetto, apparentemente teorico e disincarnato, non è altro che il realissimo soggetto che tutti diventiamo – molto praticamente e quotidianamente – quando entriamo nell’odierno mercato del lavoro capitalista.
Marx, Freud e Lacan: la logica della rivoluzione.
L’apporto decisivo di Lacan all’eterno dibattito sulle implicazioni politiche della psicoanalisi è stato proprio quello di riuscire a mostrare la continuità logica ed epistemologica tra la critica marxiana dell’economia politica e lo speciale modo di produzione dell’inconscio freudiano. Il processo inconscio di elaborazione, quale è stato scoperto da Freud, implica un tipo di soggetto irriducibile al soggetto psicologico (alla coscienza). Ciò significa che l’homo oeconomicus, a cui Freud nella propria metafora “capitalistica” aveva accoppiato l’io-cosciente, è un tipo di soggetto che è completamente tagliato fuori rispetto al reale meccanismo produttivo (di godimento) dell’inconscio – esso, di fatto, non vi svolge alcun ruolo attivo.
Jacques Lacan – che aveva elaborato la propria celeberrima definizione di soggetto ispirandosi alle regole della linguistica strutturale – a un certo punto del suo percorso intellettuale ritenne inevitabile incrociare le scoperte freudiane con le teorie del valore marxiane (pur non essendo, notoriamente, un marxista). Sul finire degli anni sessanta Lacan estrarrà dal proprio personale intreccio freudo-marxiano un’inaudita omologia (cioè un identità logica) tra la peculiare forma di godimento dei soggetti delle società capitaliste quale emerge dalla teoria freudiana, e la forma economica e sociale di sfruttamento della forza-lavoro quale emerge dalla critica economico-strutturale di Marx.
In questo intreccio Lacan troverà campo libero per accentuare la celebre tesi sostenuta da Freud in Al di là del principio di piacere, quella secondo cui il godimento non è sempre riducibile a sensazioni piacevoli: il piacere viene infatti considerato da Freud come la soglia più bassa di tensione psicofisica. Nello stesso testo Freud spiega anche che il godimento (la pulsione di morte) è proprio la pulsione al superamento di quella soglia omeostatica (di tensione minima) costituita dal principio di piacere. Per farla breve: secondo Freud il godimento si produce nel punto in cui il piacere si trasforma in dispiacere (dolore) o, vice versa, quando il dispiacere (dolore) si trasforma in piacere. L’inquietudine che ancora oggi produce questa scoperta freudiana ci richiama alla mente le nebulose nozioni di sadismo e masochismo, utilizzate tradizionalmente nella storia della psicanalisi per rendere conto (spesso maldestramente) dell’inquietante paradossalità del godimento implicato dall’inconscio Freudiano. L’accoppiamento esplicito di pulsione di morte e godimento operato da Lacan era dunque già stato articolato a chiare lettere da Freud, ad esempio, ancora, in Al di là del principio di piacere, quando in un delicatissimo punto della propria indagine il padre della psicoanalisi non ha potuto fare altro che prendere atto del fatto che i nevrotici riproducono incessante, attraverso i loro sintomi, un tipo di godimento (e di soddisfazione) che consciamente esperiscono come dispiacere.
La conclusione logica, e politica, che Lacan trae da queste considerazioni freudiane è che non c’è soggetto (cosciente) del godimento; il godimento – nella nevrosi globalizzata in cui tutti viviamo – parrebbe infatti logicamente prodursi come la soddisfazione sado-masochistica di un altro soggetto. Allo stesso modo, omologicamente, per Marx non esiste alcun soggetto-del-plus-valore in senso stretto, a meno di non feticizzare il capitale (la pulsione all’arricchimento) al punto tale da identificarlo ad un soggetto “imprenditore di se stesso” (come vorrebbero gli odierni paladini del neo-liberalismo, o come già a suo modo faceva Adam Smith immaginandosi una fantasmatica mano invisibile capace di regolare razionalmente il mercato).
Nella sua critica al feticismo Marx denuncia proprio questa maliziosa allucinazione degli economisti cosiddetti “classici”: la convinzione che il soggetto e l’oggetto eccedente della produzione si trovino in una relazione diretta e non problematica. Per Marx, al contrario, non esiste alcune reale relazione tra il soggetto e l’oggetto eccedente della produzione, il che significa di fatto che un’eventuale (e parziale) riappropriazione storica del plus-valore da parte dei lavoratori (o la temporanea conquista politica di una sua più equa distribuzione), non potrebbero comunque cambiare nulla della struttura economica che genera il loro sfruttamento.
Per il Marx del Capitale il problema dello sfruttamento è infatti prima di tutto strutturale (il che non significa affatto teorico): il problema sta prima di tutto nella frattura logica – e inosservata – tra capitale e forza-lavoro; una frattura che, solo in seconda battuta, si traduce nella rivalità empirica tra sfruttatori e sfruttati.
Una volta messa in campo e giustificata questa triangolazione tra Marx Freud e Lacan, è giunto il momento di concludere chiedendosi qual’è il suo effettivo valore pratico e politico.
In primo luogo il suo valore è senza dubbio quello di mantenere viva nell’attualità una tradizione critica radicale, fondata sull’analisi dei meccanismi logici che sostengono lo statuto sociale e soggettivo di quella che comunemente ci appare come la realtà.
In Marx, come in Freud, incontriamo inoltre una radicale messa in discussione della “natura umana”, un concetto a lungo (e tutt’oggi) utilizzato nei più svariati ambiti politici e culturali per occultare la bruciante faglia che separa la coscienza dalla soggettività. Mentre tanto Marx quanto Freud ci costringono a fare i conti col fatto che il soggetto (vale a dire ognuno di noi) si costituisce e determina in un altrove rispetto a dove pensa.
Un ultimo aspetto fondamentalmente politico che collega il Marx del Capitale, Freud e Lacan è che tutti e tre hanno pensato la “rivoluzione” (politico-sociale e soggettiva) prima di tutto in senso logico-strutturale. Nulla potrà mai cambiare storicamente, individualmente e politicamente nei rapporti di produzione (siano essi inconsci o economici), se non a partire da una sovversione radicale delle relazioni logiche che determinano l’attuale ordine esistente (della produzione della ricchezza come della produzione della soggettività). Questa dimensione logico-strutturale, da cui nessun tipo di rivoluzione può prescindere, è esattamente quella a cui Lacan si indirizzerà quando, nella sua teoria dei quattro discorsi, inizierà a dissipare l’intricata questione politica che stringe i due concetti fondamentali di Marx e Freud (il plus-valore e la pulsione di morte) in un’intima omologia.
(traduzione di A.M.)