di Marta Vannicola
e se non fosse l’amore dei miei,
io vorrei esser nato in qualsiasi altro tempo da questo infuori;
ond’è che adoperandomi a dimenticare i viventi,
a nulla più intesi che a vivere co’ passati.
F. Petrarca, Posteritati
Quanti di noi, oggi, si rifugiano nel passato per sfuggire al presente? Fu per questa ragione che mi avvicinai al poeta, individuai in Petrarca un perfetto rifugio, una sorta di locus amoenus figurato. La sua spiritualità tormentata, gli aspetti del suo animo, mi hanno permesso di accedere – soltanto dopo avermene donata la chiave – al suo mondo.
Spiritualità malinconica.
Petrarca potrebbe ripetere l’espressione di Ovidio: “Vedo il meglio e lo approvo, ma seguo il peggio”1. Non avendo il coraggio di scegliere, assume l’atteggiamento degli incerti, degli accidiosi, cioè vive in uno stato di volontaria inerzia, di deliberata malinconia. Il poeta è l’uomo senza pace. Sebbene la lettura di S. Agostino, espressione della fede, gli ricordi che lo spirito può trovare quiete solo in Dio, egli non ha la forza di ascendere a questa fonte inesauribile e, malinconicamente, si ferma a metà strada, tra il finito e l’Assoluto.
Spiritualità solitaria.
E’ la caratteristica delle anime tormentate, specie di quelle che per indole sono inclini alla timidezza e al riserbo, la cura nell’evitare la compagnia umana. Francesco Petrarca preferisce vivere nella solitudine per conoscersi, deplorarsi, compatirsi ed anche per vagheggiarsi. Non è contento di sé, però si compiace di sé, perché l’intensa vitalità interiore e soprattutto, la capacità di esprimerla in accurate forme d’arte, recano in lui la sensazione di essere quanto mai lontano dal volgo. Egli non è uno spirito capace di pensare e tanto meno di poetare nel tumulto della vita e dell’azione: la sua poesia trae alimento dal suo dramma segreto di tono pacato e delicato; per percepirsi ha bisogno di non esser distratto dalle contingenze esterne. Contrariamente a Dante, capace di far poesia nel frastuono della vita (poiché traeva ispirazione dal mondo che lo circondava e le vibrazioni del suo cuore erano talmente intense che per percepirle non era affatto necessario isolarsi), Petrarca ha bisogno di trasfigurare la realtà, di darle la forma del suo spirito. Per coglierne il significato e compiere questa trasformazione deve suggestionarsi e per riuscirci ha bisogno di solitudine. Tuttavia il fascino di quest’ultima diventa ben presto un incubo: quel sé stesso da cui non può separarsi, lo affligge con le sue pene e non gli dà pace. Lo angoscia quella sua crisi ineffabile e perpetua, che nella solitudine appare più grave. Nel silenzio del raccoglimento, il Petrarca cristiano si fa più austero e impietoso, rimprovera ed esige con implacabile durezza; il Petrarca mondano invece, avido di sensazioni e di divagazione, non può tollerare a lungo le parole scandite e severe del mistico, né può resistere alle attrattive dei volti femminili, dei circoli degli amici e dei dotti, degli applausi dei suoi ammiratori che lo attendono fuori dal suo rifugio. Inoltre, Laura, la cui immagine lo suggestiona nella solitudine, lo invita ad uscire all’esterno, a contemplarla direttamente, fosse anche solo per un attimo. Di qui il continuo alternarsi di apparizioni nel mondo e di ritiri nella solitudine, come un’ape che, dopo aver raccolto il nettare dai fiori, lo elabora nel segreto della sua celletta, dividendo così il suo tempo tra il volo e la quiete laboriosa.
Spiritualità estetizzante.
Francesco Petrarca in tutte le sue espressioni rivela uno studio costante e geniale di signorilità e di grazia. Non essendo riuscito a conciliare la terra e il cielo in sede teologica ed oggettiva (come vi era riuscito Dante), il poeta tenta la conciliazione in sede estetica, ossia si sforza di cogliere nella terra gli aspetti più ideali e più graziosi e di sintetizzarli in una visione complessa, armonica e unitaria di bellezza. Così facendo, la sua coscienza può in qualche modo rassicurarsi col pensiero che, in fin dei conti, amando la bellezza pura, non solo non rischia di diventare volgare, ma si trova sulla strada che può condurre al cielo. Sebbene il Petrarca ascetico-cristiano rimproveri a sé stesso l’amore per Laura, il Petrarca mondano, per giustificarsi risponde che in quell’amore esclusivamente estetico, ha trovato la forza per tenersi lontano dalla volgarità, in cui suole cadere la maggior parte degli uomini. Tuttavia, pur rimanendo in un piano puramente estetico, quell’amore è stato eccessivo e quindi ha intenerito la vigoria del vero amore, cioè dell’amore di Dio. Questa eccessività preoccupa Francesco, come già si è visto, eppure egli non ha la forza di moderarla. Quasi per attenuare la colpevolezza, egli si sforza dunque di dare alla terra le forme ideali del cielo. Lo sforzo è lodevole, ma i risultati sono insoddisfacenti. Infatti, egli non parte dal proposito di mettere in luce i riflessi del cielo in una creatura (come li vede Dante in Beatrice), ma dal proposito di rendere la creatura il più possibile uguale al Creatore. Francesco Petrarca è un signore pacato e gentile, creatore e adoratore, quasi un maniaco del bello. Il suo cuore è avido di vita e per lui, come per tutte le anime sensibili e delicate, non è possibile una vita senza bellezza, e soprattutto senza la compagnia affettuosa di una creatura che allieti lo spirito e allevii la pene segrete con la grazia delle forme. È per questo che in Laura sintetizza il complesso delle perfezioni che rendono piacevole la dimora terrena e riempiono lo scorrere dei giorni.
Ma che cos’è, quindi, la bellezza per Petrarca? E’ armonia: armonia di linee se si tratta di bellezza fisica, armonia di pensieri, di affetti, di espressioni (armonia della saggezza) se si tratta di bellezze spirituali. Laura è esemplare di armonia fisica e spirituale.
Spiritualità classicheggiante.
Il poeta, per rendere più nitida la bellezza che appassionatamente coltiva, si avvale dei suggerimenti che gli vengono dal mondo classico romano. I Romani, specie nell’età repubblicana, si erano compiaciuti di uno stile semplice e decoroso, nella vita privata e nella vita pubblica, nelle arti e nelle lettere. Dante, pur ammirando la civiltà romana nel suo complesso, aveva rivolto in particolare la sua attenzione all’istituto dell’Impero, in cui aveva visto la conclusione del piano della Provvidenza a vantaggio di tutta l’umanità; e i grandi uomini della storia romana erano stati ammirati da lui quali creazioni dell’impero, cioè di quell’organismo universale in cui Dio aveva deciso di inquadrare le genti umane per prepararle a vivere nel più vasto organismo della Chiesa. Petrarca invece degli antichi ammira soprattutto lo stile: il patriottismo dei letterati quali Cicerone e Livio, la sicurezza e la invincibilità di Cesare. Il poeta cerca di consolarsi ricorrendo ai motivi della saggezza classica. Quell’espressione controllata, quella serietà unita a grazia, lo avvicinano alle nobili del circolo di Mecenate ed egli si compiace del suo stile decoroso. A causa di questa signorilità sostenuta, Petrarca non apprezzò Dante come si conveniva, né come poeta, né come uomo: egli criticava l’impulsività del grande esule fiorentino. Quanto alla poesia, il Sommo aveva preferito lo stile popolare per procurarsi una fama presso le genti, mentre lui preferiva andare in compagnia di Virgilio e di Omero, per guadagnarsi la fama presso i dotti.
Spiritualità sincera.
Lo stile delle persone che nelle loro espressioni si controllano troppo, fa talvolta sospettare che sotto di esso si nasconda uno spirito insincero. Anche il Petrarca con quella cura eccessiva di sé stesso, con quell’aria da signore preciso e lindo, con quel suo incessante oscillare tra pentimenti e peccati, potrebbe sembrarci un po’ falso. Ebbene non è così: il poeta ebbe un suo tono particolare, consono alla sua indole e all’indirizzo della sua cultura, ovvero un tono sostenuto e aggraziato. Ma ciò che interessa non è il tono, bensì quello che afferma. Di sé stesso egli ci ha detto tutto. L’analisi minuta e quasi spietata dei suoi stati d’animo e le sue confessioni continue, rappresentano indizi, non dubbi sulla sua sincerità. Tutte le sue opere, e particolarmente il Secretum e il Canzoniere, possono definirsi “confessionidi Petrarca”. Ammesso che nel confessarsi egli trovi un certo compiacimento ed abbia avuto l’intenzione di trasmettere la propria figura ai posteri come quella del debole ideale, non si può negare che abbia dimostrato un ammirevole coraggio nel rivelare ai lettori la sua debolezza.
Quali sono dunque i motivi eternamente vivi della spiritualità in Petrarca?
Come si è visto, Petrarca è il poeta della debolezza: è il cristiano che propone e non riesce a mantenere i propositi, che ha coscienza di peccare, si dispiace delle sue colpe, aspira all’Assoluto ma ha la sensazione che, se si distaccasse decisamente dalle cose terrene, verrebbe a trovarsi in una sorta di stato di morte spirituale. Al poeta piaceva sentire la vita in sogno, per cogliere più intensamente le risorse della grazia voluttuosa. Questa è un po’ la tendenza di tutte le anime – essendo l’uomo per natura insoddisfatto delle cose così come esse sono – che tendono a realizzarle nel sogno per trovare in esse qualche traccia di Assoluto.
1“Video meliora proboque, deteriora sequor.” In: Ovidio, Metamorfosi, Libro VII, vv. 20-21.