di Piero Rosso
Poco tempo fa sono andato al Città Fiera di Udine e ho scattato a caso alcune foto del piano ristorazione; da queste voglio partire. Il piano è un agglomerato di ristoranti con tratti caratteristici di diverse parti del mondo; ogni ristorante è inserito all’interno di un vasto locale che li racchiude tutti. Questo luogo comune è strutturato in modo da lasciare poco spazio alla luce per entrare, se non tramite una piramide di vetro e metallo appoggiata su uno spazio aperto nel soffitto, che permette alla luce di filtrare sul piano e lenire la sensazione di oppressione che si avrebbe a passeggiare tra i ristoranti nel chiaroscuro. Nonostante ciò, questa disposizione produce una zona d’ombra all’interno del piano, dove la luce che entra dalla piramide non arriva, che viene illuminata scarsamente dalle luci elettriche dei locali, faretti necessari solamente ad illuminare una piccola porzione circostante. Non c’è una luce abbastanza grande sul soffitto, o sulle travi in metallo che rivelano la struttura sottostante, che sia abbastanza grande da illuminare l’intero luogo. In questo gioco di luce ed ombra ogni ristorante mantiene la sua unicità e la sua compattezza, separato dagli altri non tanto dal diverso stile architettonico, ma dall’isolamento luminoso, rinforzato dalla differenza di colore associato a ciascuno stile culinario. Il ristorante messicano, ad esempio, spicca per le sue pareti gialle e sembra che la maggior parte dell’illuminazione venga conservata per l’interno del locale. Al suo fianco la pizzeria italiana, coi muri in pietra, il finto sottotetto senza balcone ma con evidenti finestre e architravi in legno, la grondaia per la pioggia inutile poiché siamo all’interno, e dei lampioncini pendenti tutt’attorno al finto primo piano del locale. Evidenti porzioni del soffitto della struttura originale del centro commerciale vengono lasciate scoperte, non è stato necessario creare uno spazio finto verosimile; il cliente si accontenterà di scegliere un suo ristoro artificiale, mangiare qualcosa di tipico (un tipico-artificiale) e ributtarsi all’interno del tempio dell’acquisto, nel luogo dove si osanna il consumismo.
Oltre alla molteplicità, colpisce il punto di osservazione offerto da questo stanzone: lo sguardo di chi osserva dal balcone, sopraelevato sulla folla, lo sguardo del cittadino metropolitano per eccellenza. I dipinti degli Impressionisti avevano colto questo nuovo punto di vista sopraelevato, come Monet in Boulevard de Capucines del 1873, dove sulla destra del quadro si notano altri uomini affacciarsi dal terrazzino attiguo a quello del pittore, oppure il vertiginoso Rue Montorgueil in Paris del 1878: entrambi propongono uno sguardo sui colori cangianti della moltitudine. L’Ottocento è il secolo che consacra questo punto di vista; esso diventa accessibile ai molti; la stessa Tour Eiffel celebra la modernità del ferro offrendo un nuovo punto di visione: un monumento che sovrasta tutti i singoli e che allo stesso tempo permette al singolo di sovrastare l’affollamento delle strade, di allontanarsene e di goderne come si gode dell’acqua che scorre.
Nel piano ristorazione, però, qualcosa cambia. Lo sguardo della meraviglia sembra di non aver bisogno della folla: esso è uno sguardo che affoga nel labirinto delle sedie, delle scale diversamente tinte; questo luogo sembra dichiarare che i nuovi materiali, quelli della contemporaneità, un periodo che si relaziona forzatamente con il multiculturalismo, non sono più il ferro e il vetro, ma l’aggregazione di tutti i materiali e colori, l’accostamento violento e spaventoso che crea la voragine nello sguardo, al quale sicuramente lo shock visivo della moltitudine tanto caro alla fine dell’Ottocento ha ancora qualcosa da dire. Il punto di vista continua a essere sopraelevato, il vedere tutto, il farsi risucchiare come nel vano di un ascensore, dove lo sguardo è costretto a salire, salire, salire fino al soffitto, o a scendere al piano terra, come nel nostro piano ristorazione. Moltissimi centri commerciali, come moltissime abitazioni private, vogliono avvalorarsi dell’open space. Basti pensare alle decine di balconi interni dei magazzini Lafayette, che offrono la vista di altri balconi, in un gioco concentrico che corre attorno al nucleo fondamentale del centro: un gigantesco spazio vuoto. Uno sguardo, dunque, su altri balconi che sono a loro volta luoghi del guardare, e che fanno intravedere altri ambienti zeppi di merce, senza permettere allo sguardo di fuoriuscire dalla vertigine del consumismo… Sul piano ristorazione a Udine la folla è scomparsa, essa non è più una componente fondamentale.
La luce che entra dalla piramide sul soffitto illumina quasi solamente un Mc Donald e una porzione di un Biergarten stile bavarese di un locale che inizia al piano di sotto. Non può mancare il ristorante cinese, quello giapponese, quello indiano, tutti rigorosamente chiusi a turno in uno spazio che per la maggior parte è sempre vuoto; di centinaia di tavoli e di migliaia di sgabelli, sono alcuni sono occupati di volta in volta. Questa situazione, forse, questa varietà che illude di avere libertà di scelta, funziona proprio grazie al vuoto: se il cliente cammina a casaccio tra tutti i tavolini squadrati, e si perde nella scelta del luogo in cui preferisce mangiare, prima o poi si incaglia in uno di essi, e si siede a consumare qualcosa. In un centro commerciale dove le panchine sono scarsissime, un piano sterminato di sole sedie dovrebbe invitare al relax; eppure questa distesa di tavoli è vuota. In un luogo dove l’ora del giorno non è importante, dove ci si attarda a comprare invece di andare a pranzo, è strano che non ci siano persone sedute a tutte le ore.
Slavoj Zizek nel suo libro “Dalla tragedia alla farsa” cita una città al di fuori di Shangai, una delle tante isole per ricchi cinesi che vogliono isolarsi in una dimensione di privato assoluto, che riproduce esattamente una cittadina inglese, con tanto di supermercato Sainsbury’s, pub e chiesetta anglicana. Cercando un po’ ho poi scoperto che in verità il progetto è ben più ampio: si chiama One City, Nine Towns ed è stato un gigantesco fallimento. Ho visto le foto di questi quartieri: se non fosse per una lanterna cinese pendere da un lampione, direi che la foto è stata scattata in Inghilterra. Ma poi ci penso, e mi ricordo che anche in Inghilterra si trovano delle lanterne cinesi, più o meno diffusamente, dato l’alto numero di immigrati che importano la propria cultura e i propri segni. Allora dov’è la falsificazione di quel villaggio? Quel villaggio non è un falso, ma un vero, un vero e proprio pezzo di paesaggio inglese. In quella cittadina, dice Zizek, non esiste più una gerarchia tra i gruppi sociali che vivono nella stessa nazione perché è una cittadini solo per ricchi – fenomeno causato dai costi proibitivi delle case. Le classi più povere vengono escluse dalla finzione (ma l’estromissione è verissima, concretissima!). Costruite per far fronte all’espansione massiccia della popolazione di Shangai, queste cittadine non si sono rivelate appetibili per i compratori. Un interessante articolo, “One City, Nine Ghost Towns”, di Samo Pedersen sul sito Pop Up City le elenca: “Gaoqiao (riproduce una cittadina dell’Olanda), Fengcheng (Spagna), Pujiang (Italia), Anting (Germania), Songjiang (Inghilterra), Luodian (cittadina stile nordeuropeo), Fengjing (stile nordamericano), and Zhoujiajiao (stile tradizionale cinese di città sull’acqua). Un ultima parte, Zhoupu (America occidentale), non è stata realizzata”. Pedersen spiega che il grande problema delle città è che esse sono una copia più o meno attinente dei loro modelli, ma che allo stesso tempo mantengono caratteristiche tipiche dell’urbanistica cinese. I compratori si sono diretti verso quelle cittadine che hanno mantenuto le caratteristiche a cui erano abituati (una su tutte le case orientate verso sud), mentre le altre sono state comprate da speculatori in attesa che aumentino di valore, per poi poterle rivendere; così sono rimaste vuote, utilizzate come set televisivi, o fondali esotici per il matrimonio perfetto, a dimostrare che nemmeno la finzione perfetta è sufficiente, e che la folla è oltremodo inutile per creare economia.
La foto del Città Fiera mi ricorda che queste stesse dinamiche si ripropongono in una malfatta oasi del sincretismo, cioè il piano ristorazione di un centro commerciale, dove il vedere tutto è un vedere tutto ciò che si può acquistare, e la compenetrazione del mondo esterno, del fuori da Udine, fuori dall’Italia, si cristallizza in un solo e unico centro (commerciale), un paradiso vertiginoso della finzione, lasciato vuoto, abbandonato dalla folla che ne aveva permesso l’espansione.