“Piccioni Anni ’70”, ovvero “Colombi de merda”

di Giulio Debelli

(illustrazione di Silvia Mengoni)

Sono nato una domenica e quindi per definizione ho sempre avuto fortuna. Nel ventaglio infinito dei giorni della mia vita ammetto di avere avuto quasi sempre culo: un paio di volte ho schivato la morte per un soffio e in altre occasioni sono proprio morto clinicamente e miracolosamente risorto, riportato in vita da vari fattori alieni, situazioni particolari e interventi culosi. Certo, questo nel 90% dei casi. Tra le mie varie fortune senza merito posso anche annoverare quella di avere avuto un padre eccezionale. Uno di quei papà che sono amici e complici sempre e comunque, oltre che validi genitori. Un papà autorevole, ma mai autoritario.

Mi ricordo di un bell’uomo sui trent’anni, erano gli Anni Settanta, alto magro con i capelli neri pettinati alla Elvis e gli occhi azzurri che sorridevano sempre. Un tipo particolare in tutto. Guidava un’Alfa Romeo 1750 color grigio chiaro metallizzato coi sedili in orsetto bianco, aveva sempre questi occhiali a goccia e la sigaretta fumante che pendeva da un angolo della bocca. Mi portava a correre con quell’auto subito dopo i temporali così da sfrecciare sulle pozzanghere formatesi ai lati della strada vicino ai marciapiedi e schizzare l’acqua a distanze siderali. Ridevamo come pazzi a ogni spruzzo, avvolti nel fumo delle sue Marlboro e sbattendocene altamente i coglioni delle cinture di sicurezza. All’epoca le Alfa avevano il motore feroce, sembrava il ruggito di una belva e quando stavamo fermi a un semaforo mio padre mi strizzava l’occhio, dava gas e quando la potenza del ruggito coglieva di sorpresa i pedoni io e lui ci guardavamo negli occhi e ridevamo come cretini per minuti infiniti: “Hai visto com’è rimasta quella vecchia? Ha ha ha ha! Uhh… Guarda quello col bastone!”.

Mio padre era un grande. Quando facevo sega a scuola non andavo a cazzeggiare con i miei amichetti ma nel suo ufficio alla stazione centrale di Trieste dove lui, dalla sua scrivania di direttore, prima mi squadrava socchiudendo un occhio e rialzando un solo sopracciglio e poi sorridendo mi diceva: “Ancora? Che cazzo racconto adesso alla mamma?”. Poi si alzava e mi portava al bar dove giocavamo a flipper e ci bevevamo una cosa assieme studiando le menzogne da dire a casa all’ora di pranzo. Tanto poi a mia madre lui diceva sempre la verità: erano uguali quei due, intelligenti, concreti, colti e ribelli.

Aveva e tutt’ora ha una sola mania, quella di essere sempre avanti, alla moda e all’avanguardia. Ha fatto lui l’informatizzazione della stazione di Trieste, ha imparato a usare il computer quando io non sapevo neanche battere a macchina. E così via in tutte le altre cose, sia per la tecnologia, la medicina e gli hobby, tutto per lui doveva sempre essere rivolto al futuro, al mondo che verrà. Voleva essere pronto.

Purtroppo questa sua deviazione mentale, a volte, tende a invadere altri campi che lui ama (come per esempio la musica o la fotografia). Per la musica pazienza, poco male, si poteva pur sempre cambiare stanza quando i suoi dischi di jazz sperimentale o di heavy metal (death, speed, black) imperversavano a palla, ma sfuggire alla sua “fotografia d’avanguardia” era molto più complicato.

Un giorno tornò a casa a pranzo con un sorriso più radioso del solito. La sigaretta in bocca, la divisa della ferrovia con camicia aperta, Insomma, tutto come sempre fino a quando con gesto plateale fece volare i Ray Ban verdi sulla tavola della cucina e annunciò: “Hanno inventato una macchina fotografica che tu ci metti il rullino dentro, scatti e ti esce la foto già sviluppata! Una figata! Puoi inserire il flash, ma anche no, perché a certi modelli non serve! Eh? Eh? Si chiama Polaroid!”.

Mia madre, continuando a girare il sugo, sospirando, disse: “Fantastico Dante, compratene una, no?”. Quello guardò me, strizzò l’occhio e poi rispose a mia mamma: “Già fatto baby! Eccola!”, e tirò fuori il suo nuovo prezioso gioiello.

“L’ho presa prima di tornare a casa, così dopo andiamo da qualche parte e vediamo come funziona!”. Il suo era un entusiasmo misto fra il satanico e l’infante. Mia madre lo capì al volo e disse di portare me a sperimentare il nuovo giocattolo e aggiunse solo: “Io vado al mare con mia cugina e tua sorella! Adios Muchachos!”. Così il mio babbo pensò, pensò e ripensò al da farsi e alla fine decise. Decise per un classico – “fan culo le donne andiamo io e te soli che ci divertiamo il doppio” – seeeeh

Caricò in macchina una quantità oscena di pane vecchio, secco, che mamma conservava per fare il gratin o impanature o quel cazzo che sapeva fare lei e poi ci fermammo al supermercato a comperare chili e chili di riso. Io non sapevo cosa gli frullasse nella testa, avevo tre anni, così mi portò al giardino pubblico che ovviamente, essendo estate, era deserto. Erano tutti al mare! Tutte le persone normali di Trieste vanno al mare d’estate, al giardinetto ci puoi trovare i tossici, i barboni, i froci, qualche vecchio rincoglionito e i pazzi futuristi come mio padre che fotografano i riflessi del ruscello artificiale con le loro nuove polaroid del cazzo.

Mi disse che dovevamo attirare gli uccelli e poi fare le foto quando mi stavano vicino. “Sono timidi, sai” mi disse “ci vorrà pazienza perché hanno paura dell’uomo ma vedrai che piano piano, poco poco, ti si avvicineranno per mangiare il riso o il pane”.

Fece una specie di pentacolo con riso e pane e mi ci piazzò al centro. Non pago mi fece tenere il riso nei palmi delle mani, ovviamente rivolti verso l’alto, e poi si appostò con la sua polaroid topclass-ultimo-modello-superfiga e davvero-superiore, dietro a un cespuglio. Avevo il riso fra i capelli lunghi e biondi e il pane fra i piedi, stavo al centro della trappola ignaro e in un nanosecondo venni letteralmente assalito da uno stormo di piccioni. Erano centinaia! Li avevo dappertutto, tra le gambe, sotto ai piedi, in testa, sulle braccia e sulle mani, sbattevano quelle loro ali prendendomi a schiaffi per restare in equilibrio su di me e mi cagavano dappertutto. Mentre mi riempivano i vestiti di merda vedevo i loro occhi rossi, stupidi e rotondi andare su e giù e quei riflessi bluastri del collo in perpetuo movimento. Mio padre scattò qualche foto e io, terrorizzato, persi i sensi e mi “schienai” al suolo. Quando ripresi conoscenza lo odiai per almeno cinque minuti. Mi aveva già rimesso in macchina, promesso il gelato e si era scusato in seicento modi.

Lo perdonai subito, certo, ma il terrore dei piccioni mi rimase per sempre. Da quell’episodio in poi solo il fatto di vederne uno camminarmi vicino o sul marciapiede mi terrorizza. Cambio proprio marciapiede, mi allargo, rasento il muro e chiudo gli occhi. Io, il diavolo in persona, messo sotto da una merda d’uccello! Il paracadutista, il menefreghista, tutto ciò che sono stato e tutto ciò che ho fatto in vita mia, beh, davanti a un colombo non conta niente! Una volta iniziai ad avere un sogno ricorrente, che a volte, tutt’ora mi ricapita di fare. Sto camminando per un sentiero in salita, un sentiero che gira sul fianco di una montagna alta e stretta, le pareti della montagna sono lisce, sono fatte di marmo bianco. Intorno domino il panorama ma quello che vedo è tutto bruciato. Morto. Vedo i ruderi anneriti di una cittadina sulla vallata di sotto e alberi scheletrici completamente arsi da un incendio. I sassi sono le uniche cose scampate al fuoco e intorno a me non c’è vita in assoluto. Fa caldo, la luce è quella del tramonto ma la salita si fa sempre più ripida e so che devo raggiungere la vetta prima di sera. Accelero il passo e sudo sempre di più. Mi accorgo che il sentiero sotto ai miei piedi si fa sempre più morbido e così guardo in basso e vedo che la strada è fatta da colombi morti e colombi feriti e io li sto calpestando a piedi nudi. Da alcuni di loro escono piccoli spruzzi di sangue.

Vado nel panico e cerco possibili vie di fuga ma ai lati del viottolo ci sono solo il burrone e la parete di marmo che è talmente liscia da non potermi fornire nemmeno un appiglio per staccare i piedi da terra. A quel punto inizio a gridare a squarciagola “AIUTO!”, ma nessuno mi sente, non c’è nessuno. Sono solo in mezzo a un deserto bruciato e prossimo alla fine. Ad ogni passo sento che gli uccelli sotto ai miei piedi si stanno rianimando piano piano e qualcuno mi sbatte un’ala fra le caviglie, mentre milioni di occhi rossi mi guardano, una miriade di quei loro riflessi azzurro-violacei che dalle piume dei loro colli si strofinano tra le mie dita dei piedi. Sento le piume putride sotto le unghie… oh cazzo! Sto per vomitare e mi sveglio in un bagno di sudore. Che incubi, eh? Incuboni proprio. Poi una volta avevo una ragazza che come me aveva questa fobia dei colombi, Francesca. Gran figa, matta come un cavallo ma simpatica e niente, avevamo questo appartamento il cui balcone era stato infestato dalle nostre beneamate merde volanti.

Dovevo risolvere il problema. Erano anni che quell’appartamento era sfitto e quindi tutto un intero stormo albergava in quel balcone e così dovetti proprio studiare un piano. Fra, ovviamente, dichiarò che mai e poi mai si sarebbe avvicinata a quell’area senza un preventivo e opportuno sterminio. Era un balcone in vecchio stile ed era fatto in pietra quindi gli scoli per l’acqua piovana erano semplicemente due buchi agli angoli del pavimento. Li tappai. Presi una piccola tavoletta di legno e la piazzai al centro del poggiolo e sopra ci inchiodai un bel pezzo di pane raffermo. Poi allagai con la candeggina tutto il poggiolo; una spanna di liquido su cui la tavola potesse galleggiare, ma alta abbastanza affinché gli uccelli non potessero toccare il fondo senza appoggiare la pancia sulla superficie . Per poter beccarsi il pane quei bastardi avrebbero dovuto bruciarsi la pancia, i culi, le fighe… e soprattutto quelle merde di zampe rosse e rugose.
Lo stormo non si fece attendere e per prendere quel cazzo di pane si bruciarono ali, colli, becchi e tutto il resto e così atterriti non si fecero mai più rivedere. Tutti tranne uno. E sia io sia Francesca (l’elfo biondo) lo notammo. “Amore.. devi ucciderlo! Non possiamo fare nient’altro. Lo devi ammazzare!”. Quello stronzo si appollaiava al poggia-gomiti del poggiolo e stop, non schiodava!

Dovevo pensare. Pensare, pensare, pensare. Alla fine fui illuminato da un’idea fantastica. Avevo un pallet che mi era avanzato dai recenti lavori di ristrutturazione edera un pallet meraviglioso: era un Epal, nuovo e pesante, di quelli belli che ci puoi mettere sopra cinquecento kg di olio e lui ti sorride sprezzante come se lo avessi caricato di piume! Ok, presi il pane e lo stritolai, poi lo piazzai al centro del balcone in un piattino, presi il bancale e lo misi a mo’ di tetto, in diagonale, tenuto in piedi a sessanta gradi da un mestolo che legai ad una lenza grossa (una lenza per pesci importanti), lunga tanto da attraversare la finestra gigante tra il salotto e il poggiolo e poi presi una birra, la stappai, iniziai a bere e sempre con la lenza in mano, mi sedetti e aspettai. La lenza era legata all’occhiello del mestolo di legno e passava tra le assi del pallet. Era geniale.

Quando quell’uccello vide il pane ci si buttò sopra avido come un condor e quando arrivò sotto al bancale tirai la lenza e lo schiacciai. Il piattino schizzò via e la merda volante morì lentamente tra lunghe sofferenze… L’elfo biondo mi elesse a suo eroe e quando mi chiese di rimuovere il corpo le risposi : “No! Tutti gli altri devono vedere cosa succede a chi viene su questo balcone!” E lasciai lì la carcassa per qualche giorno. Lo rimossi con dei guanti di gomma portando una bandana tra naso e bocca e poi lo buttai in un sacco nero di quelli super grossi. Sigillai il sacco col nastro adesivo. Lasciai il pallet fra i bidoni della spazzatura giù in strada e osservai, orgoglioso di me stesso, lo splendore del pavimento del poggiolo che la candeggina aveva generosamente creato con il suo passaggio. Come mi manca quel periodo. Era proprio un bel appartamento. Avevo il letto giapponese e le porte interne me le ero costruite da solo, con assi di legno antico adeguatamente resinato, avevo una ragazza bellissima e sempre allegra con gli occhi verdi, tanta droga, tanto alcol e un caminetto in marmo che non sapevo usare. Era un luogo di festa costante. Per di là ci passò un sacco di vita, ci passò anche la polizia qualche volta. Avevo una mensola voodoo piena di pertugi e angoli segreti sempre pieni di tesori nascosti. Avevo i miei coltelli da rissa, bottiglie di vino, teschi e una pelle di capriolo appesa al muro, avevo una treccia di capelli inchiodata su un ciocco di noce. Avevo anche uno stereo e una pacca di cd strafighi e un sacco di libri bellissimi. Non avevo la tv e non una fotografia di numero ma ero felice. Avevo tutto ciò di cui avevo bisogno.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Ti potrebbe interessare