di Francesca Plesnizer
I giurati del Premio Sergio Amidei hanno deciso quest’anno di conferire il “Premio all’opera d’autore” al regista Silvio Soldini, «che si è distinto per l’eleganza figurativa, lo sguardo impegnato, l’interesse verso un tempo storico che ha perduto ogni certezza e una spiccata sensibilità rivolta all’esplorazione sociale». Sabato 15 luglio alle ore 18, presso il Palazzo del Cinema di Gorizia, Soldini ha incontrato il pubblico insieme alla sceneggiatrice Doriana Leondeff, con la quale collabora ormai da vent’anni – con lei ha realizzato sette dei suoi undici film.
Mariapia Comand, direttrice artistica del Premio Amidei, ha conversato con Soldini e la Leondeff, portando all’inizio l’attenzione sui primi passi che il regista ha mosso nel mondo del cinema. Soldini, milanese di nascita, ha raccontato di aver vissuto, appena ventenne, a New York per un breve periodo; lì ha studiato cinema e ha realizzato il suo primo cortometraggio, Drimage. All’inizio degli anni ‘80 è tornato in Italia, desideroso di continuare a lavorare nel cinema. «All’epoca» ha detto «avevo due possibilità: andare a Roma, centro nevralgico del cinema italiano, oppure restare a Milano e andare a bussare alla porta di vari produttori, sperando di essere considerato». Fu la sua natura timida e introversa a decidere per lui creando una terza opzione: egli aprì una casa di produzione, la Monogatari, scegliendo di girare film da sé, senza cercare il sostegno di altri produttori. Il cinema italiano di quel periodo non gli piaceva, così i suoi riferimenti erano solamente esteri – soprattutto il cinema indipendente tedesco e americano. Decisivo fu l’incontro con Luca Bigazzi, oggi pluripremiato direttore della fotografia (ha vinto sette David di Donatello e lavorato, oltre che per Soldini, anche per Sorrentino, Amelio, Placido): «Bigazzi lo conoscevo già dai tempi del liceo, ma fu quando tornai dagli Stati Uniti che decisi di contattarlo: era l’unica persona che conoscessi a Milano che lavorava, per così dire, nel cinema – anche se in realtà era nella pubblicità». Nacque così un sodalizio proficuo e duraturo.
«Giravamo con quattro soldi, di notte, quando per le strade non c’era gente, oppure nei weekend» racconta Soldini. «Mi aiutava mio fratello e qualche amico, ma molti mi abbandonarono prendendomi per matto, perché dopo un po’ non reggevano più la fatica delle riprese notturne. Cercavamo di girare le scene accanto ai negozi illuminati anche di notte, proprio per avere un po’ di illuminazione. Sarà per questo che i miei primi film sono così “cupi”» ha scherzato il regista.
Così è nato Giulia in ottobre, del 1984, finanziato anche dal Premio milanese FilmMaker, con protagonista Carla Chiarelli che interpreta una commessa la quale, conclusasi la sua ultima relazione, vaga per Milano – di notte, per l’appunto – in un’atmosfera malinconica ed errabonda. Sono arrivati poi gli anni ‘90 e la cosiddetta trilogia soldiniana della “A”, spiega la Comand: i tre film L’aria serena dell’ovest, Un’anima divisa in due e Le acrobate. La collaborazione con la sceneggiatrice Doriana Leondeff ha inizio proprio con quest’ultimo lungometraggio, del ‘97.
La Leondeff ha raccontato come lei e Soldini si sono conosciuti: “Negli anni ‘90, ad un festival, vidi un lavoro di Soldini e mi dissi che prima o poi avrei collaborato con lui. Mi colpì molto il modo estremamente intimo con il quale aveva narrato una storia d’amore: c’era, in particolare, un’inquadratura di due spazzolini, e quando la relazione sentimentale finisce ne resta solo uno”. Passarono tuttavia degli anni, prima che i due si incontrassero per la prima volta grazie a Mario Sesti, regista e critico cinematografico che al tempo lavorava a Mediaset, che disse alla Leondeff che Soldini era alla ricerca di sceneggiatori. “Il nostro primo incontro andò bene, ne fui soddisfatta, ma purtroppo lui mi scrisse in seguito che era alla ricerca di una persona diversa” spiega lei. “La cosa ironica è che dopo qualche mese fui ripescata: sono una seconda scelta, ma duratura” ha detto sorridendo.
Il discorso è tornato poi su Le acrobate, un film tutto al femminile interpretato da Licia Maglietta e Valeria Golino. Nei film di Soldini la dimensione femminile occupa un posto importante: “Fu girando Giulia in ottobre che mi resi conto che attraverso le donne potevo raccontare cose che altrimenti non avrei potuto dire” ha spiegato lui, e la Leondeff gli ha ricordato ciò che le disse all’epoca de Le acrobate, ossia che le donne erano secondo lui “antenne più sensibili a captare quel particolare momento storico che stavamo vivendo, che offrivano possibilità più ampie rispetto a dei personaggi maschili”.
La Comand ha poi domandato ai due ospiti qual è il loro modus operandi quando scrivono una sceneggiatura. “Nei nostri film ci sono molte scene corali, di conseguenza la fase di scrittura risulta di solito abbastanza complicata. Tuttavia, ogni film è stato scritto in modo diverso, a volte avvalendosi anche della collaborazione di terze persone” ha risposto Soldini. La Leondeff ha aggiunto: “Silvio ha spesso manifestato in passato il desiderio di arrivare sul set senza prima aver scritto nulla, di modo da essere più lucido”. “Tuttavia non ci sono quasi mai riuscito” ha commentato lui.
È stato invece particolarmente facile, per loro, scrivere la sceneggiatura di Pane e tulipani, datato 2000 e considerato forse il più celebre film di Soldini, che si è aggiudicato ben nove David di Donatello (di cui tre per miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura). “È stato un film fortunato sotto molti punti di vista” ha decretato Soldini, narrando come lui e la Leondeff si siano divertiti a scriverlo. “Molte scene, come quella in cui Licia Maglietta, la protagonista, viene inseguita da Giuseppe Battiston e perde una scarpa, ci fecero ridere moltissimo, e credevamo fosse un brutto segno: se fa ridere noi, non farà ridere nessuno, ci dicevamo” ha ricordato la sceneggiatrice. Il film racconta la storia di una donna che viene dimenticata in un autogrill dalla famiglia: da quel momento la sua vita muta completamente e lei ritrova se stessa.
Pane e tulipani è stata la prima commedia di Soldini ed è arrivato in ben 80 paesi – probabilmente ha aiutato il fatto che fosse stato girato a Venezia e che Bruno Ganz, attore svizzero di fama internazionale, sia stato il protagonista maschile. Su Ganz Soldini ha detto: “Lo scelsi dopo aver letto una sua intervista in cui diceva che gli sarebbe piaciuto lavorare con due registi italiani, uno dei quali ero io. Così lo contattai e andai a Zurigo a raccontargli il film”.
Si è parlato poi del lavoro che Soldini e la Leondeff effettuano sui personaggi dei loro soggetti cinematografici: “A volte abbiamo scritto avendo già in mente chi sarebbero stati gli attori, a volte no”. C’è sempre, tuttavia, una costante, nel modo di operare di Soldini: il regista prova con tutti gli attori del cast per due settimane circa, prima di iniziare le riprese. Una pratica che, ha spiegato la Leondeff, è più diffusa all’estero, ma che per loro due risulta essere una fase necessaria e preziosa: “Provando con gli interpreti vengono fuori improvvisazioni, battute nuove, si aggiungono cose al copione. È il momento in cui l’attore incontra il personaggio e nasce l’alchimia”. Ma, qualora non ci sia chimica, è anche l’occasione per lo sceneggiatore di modificare o riscrivere parte dello script: “Talvolta un dialogo può non funzionare e risultare brutto, ma ce ne si accorge solamente sul campo, con gli attori” ha aggiunto la Leondeff.
In conclusione si è parlato dei numerosi documentari che Soldini ha girato. L’ultimo, Il fiume ha sempre ragione, del 2016, è stato proiettato proprio prima dell’inizio della tavola rotonda. Esso parla di due figure legate ai libri e all’editoria: Josef Weiss, tipografo e rilegatore svizzero, e Alberto Casiraghi, fondatore della casa editrice Pulcinoelefante.
Il regista ha ricordato che il suo primo lavoro pagato fu proprio un documentario, e ha fatto un paragone tra passato e presente: “Oggi girare un documentario è molto più facile e meno dispendioso: spesso sono sufficienti un cellulare e un computer e il gioco è fatto. Una volta i costi erano assai più elevati: era necessario pagare la pellicola, noleggiare una telecamera e via dicendo”. Girando il documentario Voci celate dell’86, Soldini ha compreso di essere di fronte a un mezzo fantastico per entrare in mondi che non si conoscono: “È un viaggio esplorativo, si impara moltissimo osservando le persone nel loro ambiente naturale, le loro movenze, il loro modo di parlare. Sono cose che poi si portano anche nei film, dove invece bisogna creare dal nulla un mondo fittizio che deve sembrare vero. I documentari sono l’esatto contrario: in essi viene registrato un mondo le cui acque non vanno turbate, in cui bisogna entrare tranquillamente, essendo invisibili, di modo che la realtà continui a scorrere indisturbata”. Non a caso, ne Il fiume ha sempre ragione, la colonna sonora è quasi del tutto assente, poiché il regista ha voluto che fosse presente soprattutto la “musica” della carta e degli ambienti rappresentati.
Proprio girando il documentario Per altri occhi – Avventure quotidiane di un manipolo di ciechi (2013), Soldini ha avuto l’idea per il soggetto del suo ultimo film, in uscita il prossimo settembre, che vedrà protagonisti Valeria Golino – che torna a lavorare con lui dopo vent’anni – e Adriano Giannini. Nella pellicola la Golino interpreta una donna non vedente, ma Soldini ha voluto sottolineare che la sua cecità non sarà il punto centrale del lungometraggio né verrà drammatizzata. “In tutti i film sui non vedenti che ho visto finora, ci sono sempre degli stereotipi: il cieco come vittima o come supereroe che sviluppa maggiormente gli altri sensi. Io ho voluto invece raccontare la storia di una persona che non si identifica con il suo handicap”.