di David Watkins
(illustrazione di Silvia Mengoni)
Da quando aveva smesso col bere, non gli riusciva più smettere di diventare, giorno dopo giorno, più sobrio.
Vittima forse di un falso ricordo, si era abituato a pensare alla sobrietà come a qualcosa di stabile, senza impennate né picchi. Una faccenda da riassumere. Bere era anche redigere e ripetere questo riassunto, trattenersi in un riassunto della vita.
Che strano invece riscoprire, nel cuore della sobrietà, la stessa logica dell’ebbrezza, le sue leggi placide e severe. Algebra: quanti più bicchieri non beve, tanto più il suo essere sobrio si fa evidente, vertiginoso, sfacciato. Lo sente salire nella testa, da tempia a tempia, a furia di non bere, crescere come una linea in un diagramma, a ogni bicchiere scansato.
Le cose sempre più ferme, in un nitore sempre più ottuso, sempre più al loro posto.
Una sobrietà smisurata. Nei gesti, e nelle parole, via via più rare.
Nel tirocinio sottile dell’ubriachezza, si era esercitato a lungo a non vedere i confini che dividono le cose, la miopia che rivela l’essere di una cosa nell’altra, vacillare nel mondo, inevitabilmente. E quella continua rettifica di sé che significa bere, quel giocare di sponda con gli umori.
Ora è l’immobilità delle cose a smottarne la vista, a lasciarsi iniettare. Fissandole, può vederne i contorni, ma ecco subito i contorni moltiplicarsi a frotte, invasivi, prendere spazio su spazio, e convergere ovunque, a vanificare qualsiasi pretesa esistenza di un centro.
Presto tutto sarà contorno e grottesca, pura adiacenza, periferia