di Alice Lettig
Un tavolo, degli armadietti per i vestiti, qualche sedia: è in questo semplice scenario, lo spogliatoio riservato alle operaie di una fabbrica, che si svolge il serrato dibattito tra le undici protagoniste di 7 minuti, l’ultimo spettacolo scritto da Stefano Massini, uno degli autori più celebrati della scena teatrale contemporanea, di recente nominato direttore artistico del Piccolo teatro di Milano, dopo la scomparsa di Luca Ronconi.
Al centro della discussione ci sono i sette minuti del titolo della pièce: quelli a cui i nuovi soci della ditta, che è stata a un passo dal fallimento, chiedono alle lavoratrici di rinunciare. Le undici donne, che costituiscono il Consiglio di fabbrica rappresentativo delle duecento operaie dell’azienda, devono decidere se accettare la proposta o no. Sette minuti di pausa in meno, sui quindici complessivi di ogni giorno, per andare in bagno, fumare una sigaretta o bere un caffè: sembrano pochi rispetto alla possibilità di perdere il posto, e infatti all’inizio solo la delegata che ha partecipato alle trattative con la proprietà nutre dei dubbi. A poco a poco però il dibattito si anima, e ognuna delle protagoniste si trova a raccontare la propria esperienza, e a dover fare i conti con la propria vita, prima di scegliere come votare.
Dopo il successo internazionale di Lehman trilogy, anche in questo testo Massini si confronta con i temi dell’economia, visti però da tutt’altra angolazione: se nel testo precedente (ultimo spettacolo diretto da Ronconi, con amplissimo consenso di pubblico e critica) si raccontava la storia, lunga tre generazioni, di una delle famiglie simbolo del capitalismo americano, qui al centro dell’attenzione c’e il mondo del lavoro al livello più basilare: quello rappresentato da undici operaie e impiegate di una fabbrica in crisi, cui viene chiesto un sacrificio apparentemente minimo per conservare il posto.
L’autore si è ispirato a una storia vera, accaduta nel 2012 in un’azienda di Yssingeaux, in Francia, dove le dipendenti prima si ribellarono alla richiesta dei proprietari, e in una fase successiva occuparono la fabbrica nel tentativo di mantenere l’impiego ed evitare la delocalizzazione della produzione, un tentativo che tuttavia andò incontro al fallimento. Presentando l’opera sul proprio sito internet, Massini si chiede: “in quale modo raccontare in teatro tutto questo? Il pretesto me l’ha fornito (…) uno dei tanti aneddoti di cui è costellata la drammatica trattativa di quei giorni: la lunga riunione del Consiglio di fabbrica che doveva decidere se accettare o meno una rinuncia ai propri diritti acquisiti. Su quella riunione ho costruito tutto”.
E lo ha fatto con un linguaggio semplice, senza troppi fronzoli retorici, messo al servizio della costruzione di personaggi che assumono valore universale: i caratteri disegnati da Massini infatti si proiettano fuori dal singolo fatto di cronaca che li ha ispirati, e inducono lo spettatore a interrogarsi su un mondo in cui, dice sempre l’autore, “la bussola del lavoro sbanda impazzita, tirando nel vortice la stessa identità del cittadino europeo moderno”. Un lavoro che manca, o che se c’è è sempre più precario, non più un fattore di dignità per le persone, ma spesso il contrario: e cedere ancora, anche solo sette minuti, sarebbe forse l’ennesimo passo verso la perdita di diritti conquistati attraverso lunghe lotte.
Le undici operaie hanno ciascuna le proprie paure, le proprie storie, i propri momenti di generosità e di grettezza. Ognuna è diversa, ma tutte sono complementari, e, grazie alla bravura delle attrici che le interpretano, davanti al pubblico si presentano delle figure ben definite: come Arianna, ragazza giovane che ha paura di perdere il posto, Fatou, immigrata africana che difende con i denti il lavoro appena conquistato, Olivia che cerca di far comprendere l’importanza del dialogo e del confronto; ma sopra tutte si staglia Bianca, cui dà corpo e volto un’intensa Ottavia Piccolo. È la dipendente con maggior esperienza lavorativa, che conduce il dibattito e invita tutte a riflettere sulla dignità del lavoro e sul valore dei propri diritti. Fino ad arrivare, alla fine della rappresentazione e di quella che assomiglia a una lunga sessione di autocoscienza, a portare le colleghe – inizialmente tutte orientate ad accettare la proposta dei dirigenti – su una situazione di assoluta parità: sarà il voto dell’ultima operaia a decidere per il “si” o per il “no”. Lo spettacolo ha un finale che dunque rimane aperto a ogni interpretazione.
A spingere chi guarda al dubbio, anche dopo che il sipario si è chiuso, sono poi pure le protagoniste: donne di diverse origini ed età, madri, sorelle e figlie, che riescono a comunicare perfettamente la complessità e il punto di vista del proprio personaggio. Le diverse storie vengono infatti raccontate da ciascuna attrice in modo molto “fisico”, con un differente modo di stare in scena, una diversa gestualità e un diverso linguaggio. La recitazione, poi, viene incorniciata da un attento uso della luce – lo spogliatoio è illuminato da un unico, ampio finestrone che permette di cogliere lo scorrere del tempo dall’alba al tramonto – e della colonna sonora, che sembra tratta da un film d’azione. Un effetto che talvolta, però, si perde a causa delle proiezioni video che scandiscono la rappresentazione, e che in alcuni casi sono ridondanti (il conteggio delle ore regalate al padrone) e in altri sviliscono il racconto (ad esempio, il bellissimo tramonto africano un po’ contrasta con l’esperienza terribile narrata da Fatou).
Il testo di Massini, comunque, ha trovato in Alessandro Gassman un regista sensibile e attento, perfettamente in sintonia non solo con il tema trattato nella pièce – “quando in un paese il 44 per cento dei giovani è disoccupato, è un fatto drammatico” ha dichiarato l’attore – ma anche con il modo di raccontarlo. La rappresentazione infatti si regge tutta sulla tensione dialettica tra Bianca e le sue colleghe: un serrato dialogo che richiama in modo diretto quello del dramma La parola ai giurati di Reginald Rose, riferimento esplicito di Massini. Gassman stesso lo aveva portato in scena pochi anni fa, e ne ha tenuto bene a mente la costruzione drammaturgica: anche in questo spettacolo infatti, secondo lui, “la drammaturgia volutamente costruisce uno scontro: sono undici personalità, di generazioni, culture e nazioni diverse. Ma il bello è proprio che discutono, cercano un punto di incontro”.
Il senso più profondo del testo, sembrano dunque suggerirci autore e regista con questo finale volutamente lasciato in sospeso, è che più del voto in se stesso, ciò che conta è quanto viene prima: il confronto di idee e sensibilità diverse, e soprattutto il prendere parte attiva nel dibattito (e nella società), non delegando ad altri il proprio futuro.
(revisione di Daniele Lettig)