di Daniele Lettig
Viva l’Italia
l’Italia del 12 dicembre
(Francesco De Gregori)
Anche allora era un venerdì. Venerdì 12 dicembre, 1969. Un freddo pomeriggio d’inizio inverno, in una Milano – e in un’Italia – completamente diversa per clima, composizione sociale, costumi e percezione di sé. Un’Italia in cui, in un venerdì poco prima di Natale, molti tra piccoli proprietari, allevatori, mediatori, affollavano ancora dopo l’orario della formale chiusura, per sbrigare i propri affari, la grande sala della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana: quattro passi dietro il Duomo, a due dall’Arcivescovado.
L’esplosione delle 16.37 è un botto enorme, che uccide diciassette persone e ne ferisce altre ottantotto, e viene udita in mezza Milano, seguita dopo poco dalle urla strazianti e dalle sirene delle ambulanze, dei pompieri e delle forze dell’ordine che si precipitano sul posto.
Ancora un po’, e arrivano anche i primi giornalisti, che riescono a entrare in quella che era la filiale della banca, e raccontano di scene raccapriccianti. Il buco, enorme, laddove era stata collocata la valigia con l’ordigno, sotto il grande tavolo al centro del salone, usato per compilare i moduli e gli assegni; le vetrate infrante, con schegge sparse in ogni dove; le sedie e i mobili divelti; i corpi dei colpiti, smembrati o dilaniati; e quelli dei feriti, urlanti.
Da uno stupendo libro dedicato a Milano e scritto da un giornalista di razza, che quella sera arrivò in piazza poco dopo il boato, ecco il racconto della cerimonia funebre, quattro giorni dopo:
“la mattina dei funerali delle vittime della strage. La folla è come impietrita, i volti tesi, in un magma che si fonde indistinto con il cielo plumbeo. Il buio è rotto solo da lampioni accesi. (…) Milano sembra un catafalco nero di dolore. Adesso ai funerali delle vittime, e anche a quelli dei carnefici, la gente applaude in modo liberatorio o televisivo quando le bare escono dalle chiese. Ma quel giorno un sovrumano silenzio pesa su piazza del Duomo e sulle strade tutt’intorno. Una pioggia sottile scivola sulle teste, sulle corone di fiori, sui carabinieri che presentano le armi alle autorità arrivate da Roma per pronunciare bolse parole. Quasi mezzo milione di persone sembra appiccicato in un unico corpo protetto dal massiccio servizio d’ordine degli operai delle fabbriche della Bicocca e di Sesto San Giovanni venuti in città a esprimere angoscia e affetto, nel nome della democrazia, il bene sommo. Quella loro presenza rappresenta infatti una risposta politica, oltre che un monito contro i pericoli di eversione e anche di un possibile colpo di Stato di cui da mesi corrono voci. Il silenzio è un segno dolente, ma anche un fermo no. È uno dei momenti più alti della città di Milano.
Poi prevarrà la delusione. Poi il disincanto. Poi la rassegnazione e l’abbandono”. (Corrado Stajano, La città degli untori).
Subito, immediatamente dopo aver soccorso le vittime, inizia la caccia all’anarchico: chi altri può essere il bombarolo assassino? Non è stata forse trovata un’altra bomba, inesplosa, a poche centinaia di metri da lì, in piazza della Scala, nella sede della Banca Commerciale? Non sono esposi altri tre ordigni a Roma, quello stesso pomeriggio? E non sono forse gli anarchici che di solito piazzano le bombe?
Ancora Stajano: “quella mattina dei funerali viene arrestato Pietro Valpreda, ballerino anarchico. Quella notte l’anarchico Giuseppe Pinelli cade dal quarto piano della Questura durante un interrogatorio di polizia. Comincia la macabra ballata di una verità ben custodita che durerà quarant’anni e più. Senza mai un ‘pentito’ che confessi, come è sempre accaduto negli affari di Stato”.
Va segnato qui l’inizio di una nuova fase storica per la ancora giovane Repubblica. Se il 12, il giorno della strage, è comodo come simbolo, come data periodizzante (al modo in cui lo è, in un contesto più ampio, il 12 ottobre 1492), è forse la mattina del 16 dicembre 1969 il vero giorno in cui muta il rapporto tra cittadini italiani e Stato: “la notte che Pinelli”, per citare il titolo di un libro dedicato qualche anno fa da Adriano Sofri a quegli eventi. È forse quello il giorno in cui anche tanti che non erano già avversi al potere statale-democristiano, prendono atto della natura oscura di questo potere (che ancora oggi, nonostante i cambi di nomi e casacche, conserva integri tutti i suoi segreti osceni); potere che per “fini più alti” sacrifica ben volentieri i propri sottoposti (e anche, qualche anno dopo, i suoi servitori come il commissario Luigi Calabresi), e fa di tutto per depistare le indagini e sottrarle al loro corso (il primo processo fu spostato ben presto a Catanzaro (!) per legittima suspicione). È l’ennesimo “peccato originale” italiano, che segue una già lunga costellazione (un evento per tutti: Portella della Ginestra, 1 maggio 1947) e ne inaugura un’altra che culminerà quasi dieci anni dopo on il cadavere di Aldo Moro riverso nella Renault 4 e un’altra cerimonia funebre, macabra e ridicola al tempo stesso, immortalata dalle telecamere a colori della Rai: quelli che saranno detti “funerali della Repubblica”.
Oggi sembra passata un’era geologica, non soltanto quarantacinque anni. Abbiamo “seconda” Repubblica che forse sta trasformandosi in una terza, sempre senza fare i conti con le tare peggiori con cui la società italiana convive da sempre, e il tratto fondante del sentimento del tempo sembra essere – non solo nel Belpaese, beninteso – un continuo presente in cui tutto è appiattito e indistinguibile, in cui la storia, anche quella recente, ciò che è avvenuto ieri, va relegata agli specialisti, quando va bene.
Oggi piazza Fontana è un luogo tranquillo, da cui si scorgono le guglie del duomo e quelle, più alte, dei nuovi grattacieli che oggi svettano più alti della madonnina nel cielo della città. Ci passano i tram, che quarantacinque anni fa non c’erano. Nell’edificio sventrato dalla bomba c’è sempre una banca, uno sportello moderno, informatizzato e con pochi dipendenti, del monte di un istituto che si dibatte in altre sue bufere. Di fronte, si sta concludendo la ristrutturazione di un palazzo, forse un albergo.
Che cosa resta della fredda serata del 1969, tra la distrazione dei passanti che corrono a casa in un altro qualunque venerdì, desiderosi di un weekend di relax dopo l’ennesima settimana di lavoro, e dei turisti – molti i cinesi, i giapponesi e i russi – che vanno verso la cattedrale? Molto poco, due targhe malinconiche e la grande scritta sulla facciata, bianca, gelida: Banca Nazionale dell’Agricoltura. Chissà che cosa pensa, chi oggi – milanese oppure no – decide di sostare per poco dalla sua corsa per fermarsi a leggere la lapide più vecchia posta sull’aiuola spelacchiata a lato della banca:
E al di là delle manifestazioni di rito, che raduneranno senz’altro – incredibile a dirsi – ancora molti irriducibili “passatisti” (forse un po’ gufi, chissà) che si ostinano a credere nella forza della memoria, che cosa rappresentano per noi quella lapide, quell’edificio, quella piazza? Solo la polvere di un’epoca sepolta, viva solamente nei ricordi sempre più sbiaditi di chi c’era e nei libri che si sforzano di tramandare? Non dovrebbero essere piuttosto un memento perenne a una continua attenzione e vigilanza, a una memoria che ci dice ancora qualcosa non solo del passato ma del nostro oggi? Un’esortazione a non dare – mai – per scontate conquiste civili e sociali costate sangue e morti ai (bis)nonni dopo il disastro della guerra fascista, e difese con altro sangue dai padri-nonni negli anni della “pax atlantica”? La risposta compete a ciascuno: lavorando in prima persona e con impegno, sfuggendo all’individualismo narcisista e consumistico che ci viene imposto da ogni parte per ritrovare le radici di un agire e di un vivere comune, e soprattutto diffondendo questa memoria, e usandola come base per tenere sempre alta la soglia di attenzione: perché i diciassette morti del 12 dicembre, Giuseppe Pinelli, e poi Carlo Giuliani, Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi non siano morti invano.
“Guerra fascista”?
Sì, sempre colpa dei fassisti.
Magari la dicitura “Guerra civile” renderebbe in modo più imparziale l’idea…
Parlando della Seconda guerra mondiale, e della decisione da parte di Mussolini di entrarci il 10 giugno 1940 a fianco di Hitler, ritengo corretto chiamarla guerra di aggressione fascista. Per quanto riguarda il dopo 8 settembre, il dibattito è aperto e ne possiamo discutere. Per quanto mi riguarda l’interpretazione di Claudio Pavone (la “guerra civile” appunto) si può condividere tenendo ben fermo il fatto che se avessero vinto i fascisti la storia italiana sarebbe stata ben diversa.
“La dichiarazione di guerra e’ stata consegnata alle ambasciate di Francia e Gran Bretagna”. Piu’ imparziale di cosi’. E non fu l’Italia fascista a invadere la jugoslavia, questa volta senza dichiarazione di guerra, per spartirsela con gli alleati? Se poi ci riferiamo alla Resistenza, l’espressione “guerra civile” e’ tutt’altro che neutrale se presa in un certo contesto, visto che spesso ha fatto da testa di ponte per operare un livellamento tra partigiani e “ragazzi di salo'”, come se non ci fossero state differenze qualitativa tra le due parti (non per forza morali).
Ma poi, stiamo ancora a discutere della matrice neofascista delle stragi? Molto andrebbe ancora svelato, pero’ che la regia di stato si sia servita dell’eversione nera in una strategia ben precisa penso sia fuor di dubbio. Forse bisognerebbe indagare ulteriormente questo legame – tutt’altro che infondato – tra il fascismo e la repubblica nascente: la discontinuita’ non e’ poi cosi’ evidente, in barba alla retorica vittimista di certo neo fascismo. Si vedano i prefetti, i magistrati, i questori, e i molti quadri dello stato confermati dall’epoca fascista, l’utilizzo in ottica atalantista di settori che venivano dal regime, le piu’ recenti scorribande mafiose della destra – quella piu’ eversiva, tra l’altro -romana. Insomma, sempre colpa dei fassisti?
Claudio Pavone infatti nella prefazione a “Guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza” scrive: ” mai come nelle guerre civili le due parti sono irrimediabilmente diverse e divise. I fascisti, coerentemente con la loro storia, volevano un’Italia opposta a quella che volevano i resistenti”. Questo per tracciare una differenza tra l’uso del concetto di “guerra civile” fatto da Pavone e quello propagandistico fatto dagli ambienti reducisti nel dopoguerra. Lo stesso Pavone, comunque, parla di tre componenti della Resistenza: quella della guerra civile, quella della guerra di liberazione nazionale, quella di guerra di classe.
Ci sono due modi molto diversi per essere “imparziali”, uno è facile e uno è difficile. Uno è attivo, l’altro passivo. Uno è giocare secondo le regole politicamente corrette del gioco “storicistico-oggettivistico” che tutti critichiamo, l’altro significa essere capaci di sopportare la verità sgradevole che l’altro ci infligge rilanciandogli poi agonisticamente e affettuosamente la sfida al momento in cui sarà lui a dover assaporare questo calice amaro. Quest’ultimo è un modo inusuale di vivere passivamente l’imparzialità, un modo sconosciuto a molti se non altro a causa dell’idea “negativa” di libertà che tutti abbiamo ereditato dalle dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo e da un certo liberalismo. Sade diceva, rovesciando ante litteram la celebre massima dei diritti dell’uomo, “ho diritto di abusare illimitatamente di te, esattamente come tu hai diritto di abusare illimitatamente di me”, …non è veramente ironico che questa frase sia proprio il contrario di quella bella (quanto ipocrita) frase “la libertà di ognuno finisce dove inizia quella del’altro”? Non è forse vero che le nostre libertà non fanno altro, continuamente, che influenzarsi e violentarsi vicendevolmente? Chi potrebbe negarlo? Non sono gli altri a dover essere imparziali, non c’è niente di bello nell’imparzialità, né mai niente di vero, perché la verità non c’entra niente (purtroppo) con la descrizione oggettiva della realtà, la verità è un tentativo di sedurre gli altri, un’operazione isterica e che invoca complicità, un’affermazione letteralmente insensata a partire dalla quale diviene possibile inventare o demolire (insieme ai propri complici) qualunque “realtà”.
Non credo si scriva per essere imparziali, né che sia mai possibile scrivere alcunché partendo da questa ambizione, a meno di non essere affetti de megalomania… si può forse provare a scrivere senza essere ideologici, ma è un lavoro lungo, impegnativo e masochistico (che spesso preferiamo consigliare agli altri ben prima che a noi stessi). Non essere ideologici non significa essere imparziali, significa non mettere in anticipo le proprie parole sotto l’ala protettrice della Storia, della Scienza, della Fede e dell’Ideologia.
“Quest’officina dove si fabbricano ideali – mi sembra che esali unicamente fetore di menzogne”
P.S. la citazione mi è tornata alla mente leggendo il bel commento di Andrea, che condivido in toto. Se vi sentite chiamati in causa significa che avete la coda di paglia 😉
a Daniele Lettig:
pardon, non avevo compreso a “quale” guerra ti riferissi.
Ps: “aggressioe”: non ho mai sentito di una guerra pacifica e non aggressiva 🙂
a Davide Pittioni:
1) che ci fosse differenza è lapalissiano. A stabilire la distinzione di statura tra eroi e vinti la lascio ad altri. Vae Victis, si diceva.
2) innegabile che certo neofascismo sia legato a doppia mandata allo Stato in quegli anni, anche se ritengo stiamo trattando di argomenti che esulano dal raggio d’azione dei nostri occhi.
Così come è innegabile che i nemici ella sinistra dura e pura, gli americani, li abbiano portati qui i Italia, insieme al ritorno in grande stile della mafia, i resistenti stessi. (con tutte le differenziazioni del caso).