Recensione a L’ultima notte di Federico Campagna
di Lilli Goriup
“Economie della perdita” sarebbe il titolo perfetto per una collana in cui inserire L’ultima notte. Anti-Lavoro, Ateismo, Avventura di Federico Campagna, edito da Postmedia nel 2015. Un intenso libello di 75 pagine, compreso il poscritto. Al crocevia tra filosofia, racconto autobiografico e afflato lirico, il giovane (classe 1984) autore anarchico prende di mira l’ideologia intrinseca al lavoro. L’ideologia – termine su cui non sarebbe d’accordo, e sostituirebbe con “obbedienza” – è per lui ciò che rende possibile l’esercizio del potere. Ne ricostruisce la storia alla luce della domanda genealogica: non “che cos’è?” bensì “da dove trae origine?”. Ecco l’incipit: “Ero arrivato perfettamente in orario: perché erano già tutti al lavoro? Lavoravano duro, più di quanto i manager si aspettassero da loro. E alla sera, quando l’oscurità nordeuropea già avvolgeva gli uffici e gli appartamenti dei young professional, loro restavano seduti imperterriti alle loro scrivanie, agitando le dita sulle tastiere quasi fossero rosari digitali. Mi guardavano spegnere il computer e mettere la giacca come si guarderebbe un concorrente sconfitto abbandonare la gara. Perché lavoravano fino a così tardi, quando né soldi né alcun riconoscimento ne sarebbero derivati?”
Il lavoro come mantra
“L’ultima notte” è scomponibile, idealmente, in due. Secondo la suddivisione così proposta, la prima sezione, dal titolo “Ateismo radicale”, corrisponde alla pars destruens. Prende il via dalla constatazione che il lavoro costituisce oggi una “nuova fede” e un “paradosso”. Secondo l’autore, nel giro di un paio di secoli la storia occidentale ha visto morire: Dio, il mito del Progresso, l’idea stessa di Storia. Quel posto così rimasto vuoto era insostenibile per la coscienza occidentale, che ha provveduto a sostituirlo: “Ciò di cui avevano bisogno era un tipo di preghiera che fosse in grado di auto avverarsi senza doversi rivolgere ad alcun Dio che potesse tradirli. In effetti, quel che andavano cercando non era una preghiera, ma un mantra (…) un incantesimo che producesse se stesso senza sosta. Una fede nella fede”. Per Campagna quel mantra è il Lavoro, con un richiamo al dibattito novecentesco sulla questione della tecnica che un giovane Ernst Jünger avviava individuando nel Lavoro la nuova forma che entrava a forgiare il mondo contemporaneo (Der Arbeiter, 1932).
Un paradosso inquietante
In seguito anche all’intervento di Martin Heidegger, nel corso del dibattito novecentesco sarebbe cambiata non tanto l’analisi quanto il giudizio di valore su di essa: la tecnica e il lavoro assunsero i tratti nichilistici propri dell’età contemporanea. Il paradosso del Lavoro, continua Campagna, sta proprio nel contrasto tra la crescente importanza che gli viene attribuita e la forza (auto)distruttiva che porta seco: “I segnali di devastazione economica e ambientale (…) punterebbero logicamente verso una forte riduzione dell’investimento umano nel Lavoro. Eppure (…) il discorso culturale attorno al lavoro sembra accelerare nella direzione opposta, reclamando a sé un ruolo sempre maggiore all’interno delle nostre vite”. Ancora, l’ufficio è il luogo dell’auto-realizzazione, dove poter “ritrovare se stessi”. Interessante notare un altro richiamo, che nel testo non è esplicito. Nel tardo Freud, i meccanismi di ripetizione sono il segno della pulsione psichica disgregativa, di morte. Che triangolazione si creerebbe mettendo in scena da una parte il Lavoro e i suoi riferimenti teorici, dall’altra il suo carattere ripetitivo (un “mantra”) osservato da un punto di vista psicanalitico?
Obbedienza, promessa, debito
Tornando al testo, a questo punto l’autore inserisce la sua genealogia dell’obbedienza, al fine di smascherarne l’inganno sotteso. Come per un certo Foucault, la disciplina è il prodotto della società tradizionale, ad esempio, della caserma. L’obbedienza al contrario è per Campagna più roba da ufficio. Co-originaria alla civiltà stessa, l’obbedienza comporta tuttavia un ulteriore salto di volontarietà. Alla sua origine egli pone il sistema debito-credito, rovesciandone la prospettiva. È il datore di lavoro a essere sempre in debito verso il lavoratore, poiché non può ripagarlo con la stessa moneta che gli viene prestata: “Un credito di tempo di vita potrà essere ripagato in pieno solo con un’equivalente restituzione di tempo vitale, il che ovviamente è impossibile” e di conseguenza il salario “può coprire solo gli interessi su questo debito, ma non il debito stesso”. Il debito nei confronti del lavoratore, irriducibile, è quindi ricompensato con la falsa moneta della Promessa. Promessa del salto qualitativo, della rottura radicale. Nella società post-secolarizzata, questo processo è al suo compimento. Il paradiso, all’interno della Promessa, è stato rimpiazzato dal lavoro stesso, nella forma della Carriera. Dopo di essa, “niente rimarrà più lo stesso: nemmeno la nostra carne, che troverà nuova vita dentro i vestiti costosi dell’uomo o della donna di Successo”.
L’ultima notte
Fin qui abbiamo tirato le fila di quanto esposto nella prima parte del libro, mettendone in luce alcuni richiami al pensiero novecentesco. Siamo partiti dal Lavoro come mantra e abbiamo seguito il ragionamento con cui l’autore smaschera questo paradosso. Donde nasce l’obbedienza legata a doppio filo con il lavoro, ci si chiedeva? La risposta è: nella promessa che il lavoratore sarà ricompensato. “L’ultima notte” fa da cerniera tra la pars destruens e la pars costruens del testo. Da qui si inizia a prospettare la proposta etica che sarà delineata nel resto del volume. Un ribaltamento dei valori, ancora una volta in perfetto stile nietzscheano: bisogna farsi sperperatori, parassiti, criminali. Il punto zero da cui operare il rovesciamento etico è un sentimento: la rabbia. Buona lettura.