San Martino, l’ignudo e l’amore del prossimo: un apologo lacaniano al di là del bene

di Andrea Muni

Una delle battute più oscenamente divertenti che si possono trovare nei seminari di Lacan riguarda San Martino. Il nostro amato clown riassume prima di tutto l’agiografia del santo. Martino – figlio di possidenti romani e militare di carriera – incontra un giorno d’inverno un ignudo, un mendicante, che gli si para davanti in mezzo alla strada innevata; egli allora, con un colpo di spada, taglia il suo ricco mantello e ne dona metà all’ignudo, affinché questi possa proteggersi dal freddo. Il buon Signore durante la notte, per premiarlo di questo bel gesto (siccome non era già abbastanza ricco!), fa miracolosamente ricrescere la metà del mantello di cui Martino si era privato e che aveva donato al poveraccio. Tanto basta al futuro santo per convertirsi al dio unico e votare la propria vita alla carità cristiana.

La terribile battuta di Lacan sull’ignudo e San Martino cala come una mannaia sull’uditorio del Seminario VII. Dopo aver illustrato le cinque righe in cui Freud demolisce (nel Disagio della Civiltà) l’idea che possa esistere qualcosa come un amore del prossimo in generale, Lacan prende di mira anche l’amore, molto più concreto e tangibile, per un’altra persona in carne e ossa, e con esso il sentimento fondamentale che dovrebbe accompagnarlo: l’altruismo. Lacan nota però come non sia raro che le acrobazie più tortuose e barocche di questo bel sentimento, ci riconducano spesso misteriosamente e a rovescio sulle vette più gelide del nostro narcisismo. “Il mio egoismo si soddisfa benissimo con un certo altruismo che si colloca a livello dell’utile, ed è esattamente questo il pretesto con cui evito anche soltanto di abbordare il vero problema, ovvero il male che io desidero, e quello che desidera il mio prossimo” (Lacan, Seminario VII).

Quella di San Martino è certamente una delle immagini più stupide, stereotipe (e quindi convincenti) del bene e della bontà cristiani. Una variante appena un po’ più realistica della moltiplicazione dei pani e dei pesci, un gioco a somma non-zero in cui magicamente, in questa vita o nell’altra, con o senza aiutino miracoloso di dio, tutti vincono e nessuno perde. Ricchi e poveri, in fondo, saranno uguali, se sono buoni, perché sono della stessa stoffa, come il mantello di San Martino. Questo è l’ingrediente segreto della seduzione cristiana, l’oppioide antico e potente che da secoli tiene a freno la rivolta e i bollori che si agitano nel sangue degli sfruttati, dei sofferenti e dei sottomessi. Una pozione magica che il capitalismo, e i vari pseudo-progressismi riformisti suoi alleati, negli ultimi due secoli hanno saputo filtrare, distillare e ammodernare con almeno altrettanta raffinatezza. Basta che il padrone condivida, a propria discrezione, un po’ del suo bene (cioè dei suoi beni) coi poveracci… e sarà buono, santo addirittura!

Ma insomma, non menarcela, qual è questa battuta di Lacan?

Va bene, eccola. Dopo aver messo in guardia dalle trappole dell’altruismo, e aver specificato che il bene nella cultura capitalista è pensato sul modello della gestione e del servizio dei beni/merci, Lacan torna polemicamente sull’apologo di San Martino e sull’apparente autoevidenza della bontà del suo gesto. “Il mendicante è nudo, ma può essere che, al di là del bisogno di vestirsi, egli mendicasse qualcos’altro, magari che Martino lo uccidesse, o che lo fottesse”. Se questa battuta non ti fa ridere, probabilmente sei un cristiano-liberale.

È un dato d’esperienza che io voglia il bene degli altri a immagine del mio – cosa che gia’ non è il massimo. Ma il punto e’ che io voglio il bene degli altri “solo fintanto che rimane a immagine del mio”. E vi dirò di più, questo si degrada rapidamente in un “desidero il bene degli altri, purché dipenda da me”

Lacan, Seminario VII

La battuta su San Martino è la condensazione perfetta della critica radicale, della vera e propria contestazione che la psicoanalisi introduce nella storia della tradizione etica occidentale. Nel Seminario VII Lacan ne conduce una critica serrata, passando sotto la propria graticola l’etica aristotelica, quella giudeo-cristiano-ellenistica, quella puritano-capitalista, quella kantiana e il suo rovescio sadiano, quella utilitarista e pseudo-democratica e infine addirittura quella freudiana. Per Lacan, una volta di più in sintonia col suo nemico-amico Bataille, la storia dominante dell’etica occidentale ripete in varie formule da secoli (con rare eccezioni) un’equazione semplice quanto discutibile e controintuitiva, a cui lo stesso Freud – persino dopo L’al di là del principio di piacere – sembra ostinatamente e sintomaticamente attenersi fino alla fine:

Male = godimento a qualunque titolo pericoloso, improduttivo e in pura perdita

Bene = piacere inteso come serenità, quiete, stato di minor tensione, assenza di dolore.

“Per Freud il godimento è un male, e il bene consiste nel tenercene il più lontano possibile” (Lacan, Seminario VII). L’etica della psicoanalisi, titolo del Seminario VII, non c’entra niente con l’etica dello psicoanalista, ovvero con la sua deontologia, si riferisce piuttosto esplicitamente alla necessità di una revisione profonda del tradizionale rapporto tra bene/male e piacere/dolore alla luce delle scoperte della psicoanalisi stessa e dell’al di là del principio di piacere. Lacan demolisce in questo seminario l’intera teoria freudiana (abbozzata per la prima volta dal padre della psicoanalisi proprio nell’Al di là del principio di piacere) concernente la presunta dialettica tra le “buone” e aggreganti pulsioni erotiche dell’Es, e le “cattive” e mortifere pulsioni distruttive dell’Io. Sembra quasi ridicolizzare Freud, quando denuncia senza mezzi termini il modo in cui, sintomaticamente e a più riprese, il padre della psicoanalisi lascia trapelare tutta la sua angoscia di fronte alla possibilità che l’etica umana sia diretta da un principio che trascende quello del piacere (inteso come quiete e minor tensione). Ne Il problema economico del masochismo Freud giunge addirittura ad affermare che “il masochismo – diversamente dal sadismo – rappresenta un grande pericolo, la più grande minaccia portata alla vita psichica e alla vita in generale”. E’ evidente in Freud una confusione che Lacan rettificherà tra il piano biologico e il piano simbolico del desiderio di morte (un conto è voler cambiare/trasformarsi/rinascere, un conto è buttarsi dal terrazzo), oltre che una confusione tra il desiderio di soffrire e quello di morire, che – per dio! – non sono affatto la stessa cosa. Sant’Agostino diceva – criticando stoici ed epicurei – che chi fa di tutto per non provare dolore è il vero malato, e che il poter provare dolore invece, il poter soffrire per qualcosa o qualcuno, è al contrario un sintomo di forza e salute.


Forse qui troviamo il vero senso dell’amore del prossimo, ma solo se siamo in grado di fare i contri con questo fatto: che il godimento del mio prossimo, il suo godimento nocivo, malvagio, è ciò che si pone come il vero problema, la vera sfida, al mio amore per lui/lei

Lacan, Seminario VII

Il bene e il servizio dei beni: un altro Bentham

Il capolavoro, il vero e proprio gioco di prestigio dell’etica capitalista è stato quello di riuscire a mettere al lavoro l’al di là del principio di piacere. I discorsi dominanti e lo sfruttamento ci mantengono in uno stato costante di stress e tensione pulsionale frustrata – di dolore sordo, per chiamarlo col suo nome – che per vie misteriose diviene pian piano un fine in sé, un godimento a buon mercato di cui ci soddisfiamo pienamente e che non ci fa nemmeno smettere di produrre. Lacan lo chiamerà più avanti, nel Seminario XVI, “più-di-godere”. Oltre alla decostruzione del bene inteso come piacere statico e inerte (ovvero come semplice assenza omeostatica di tensione pulsionale), Lacan individua l’origine della percezione morale del bene capitalista nel servizio e nella ripartizione ordinata dei beni, intendendo con questo i beni materiali e il loro miglior godimento da parte del maggior numero possibile di individui.

Non molti conoscono le theory of fiction di Jeremy Bentham, più famoso – via Foucault – come inventore del celebre Panopticon. La theory of fiction è una teoria politica estremamente raffinata, e in grande anticipo sui tempi, che si pone l’obiettivo di creare a partire da discorsi e istituzioni effetti politici globali di piacere e il dolore capaci di orientare le condotte degli individui. Bentham immagina una logica del discorso capace di generare scientificamente piacere e dolore negli individui a partire dagli atti e dalle condotte che il legislatore intende scoraggiare o incentivare. Un modo estremamente originale (e perverso) di riannodare il bene e il piacere, che servendosi in modo spregiudicato della migliore tradizione etica aristotelica e sensista pone in realtà una nuova mostruosa equivalenza – che il legislatore si arroga il diritto di postulare e architettare – tra sensazioni piacevoli (cioè non dolorose) e condotte conformi al discorso dominante. Questa è la grande intuizione politica di Bentham, che Lacan scopre per primo e che altri importanti filosofi viventi, come Christian Laval, approfondiranno. Un’intuizione dalle conseguenze politiche eccezionali, e sotto gli occhi di tutti. Deviare dalle condotte implicitamente inscritte nelle logiche dei discorsi dominanti, diviene così un’esperienza coscientemente percepita come dolorosa/sconveniente, mentre – postulando che l’essere umano desidera “naturalmente” il piacere – percorrere la strada tracciata dalle logiche di tali discorsi significa apparentemente fare il (proprio) bene. Piacere e dolore, nel loro rapporto con il bene e il male, sono oggetti in tutto e per tutto storici, nient’altro che effetti di discorso. Questo sapere è la condizione per potervi mettere mano politicamente, per riplasmarne storicamente il significato, individualmente e collettivamente, sempre che se ne abbia la forza e il potere politico-istituzionale.

Sembrerebbe nella natura del bene l’essere altruista. Ma ciò che Freud ci fa sentire, senza mai articolarlo fino in fondo perché ne rimane ogni volta terrorizzato, ed è per questo che noi cercheremo di farlo al suo posto, è la presenza di questa malvagità fondamentale che abita il prossimo, e quindi anche me stesso. Perché che cosa c’è di più prossimo per me di questo nucleo, di “questo in me più di me”, che e’ il mio godimento, e che io stesso non oso nemmeno abbordare?

Lacan, Seminario VII

E che c’entrano San Martino e l’ignudo?

C’entrano perché siamo talmente sprofondati nella nostra acquiescenza che nel sentire questa stupida storiella diamo per scontato che il mendicante fosse nudo perché voleva essere vestito. Non solo, ci sembra addirittura ovvio che volesse essere vestito perché non aspettava altro, nella sua vita insulsa, che comparire sulla strada di Martino per farne un santo, secondo i disegni provvidenziali del buon dio. Un mendicante nudo esiste per essere vestito, non può essere nudo perché è arrapato! Se lo fosse – se fosse stato preso da un’irresistibile fregola alla vista del futuro santo – sarebbe un folle, o come minimo un pervertito. Non possiamo sapere cosa l’altro vuole da noi, perché non lo sa nemmeno lui. E lo stesso vale per noi, che in fondo non siamo mai che gli altri di qualcun altro.

“Non si può sapere niente”, mantra dell’etica scettica di ogni tempo e latitudine, modo di sostegno dell’uomo nella vita – come amava dire Lacan. “Bella merda!”, dirà qualcuno che ignora che tale approccio al reale è stato per secoli, anzi millenni, la pietra miliare di ogni etica e ogni condotta considerate sagge. Nella nostra cultura, quest’etica è stata purtroppo superata definitivamente tra ‘600 e ‘800 grazie a una nuova concezione del rapporto tra sapere, vita e verità introdotta dal razionalismo e proseguita con la moderna scienza borghese. Questo nuovo rapporto tra vita, sapere e verità, in modo rovesciato rispetto alla posizione scettica, si fonda sull’idea che non soltanto si può, ma in un certo senso di deve, sapere tutto. Persino per agire, per essere, per vivere, è necessario ormai dimostrare da quale verità dipendono le nostre azioni, quale sapere – in generale – le giustifica. Ma quando si parla di etica, di bene e di male, di piacere e di dolore – e non di molecole o dell’area del triangolo – questo discorso dimostra tutta la sua debolezza. La sua realtà esiste infatti solo nella solo theory of fictions che anima, impercettibilmente e in profondità, la realtà sociale più immediata e concreta che orienta i nostri desideri.

Sarà per questo che lo scorso 4 Dicembre a New York, in un’esplosiva ed eretica reinterpretazione dell’agiografia, all’uscita di hotel un novello ignudo mendicava inconsciamente dal santo di un’altra fede non di essere vestito, né di essere fottuto ma – per tornare alla battuta lacaniana – di essere ucciso. Sarà per questo che il 4 Dicembre, a New York, il San Martino di un’altra stoffa – invece di tagliare in due con la spada il proprio mantello per dividerlo con il Ceo della UnitedHealthCare, e invece di fotterlo – ha amato il suo prossimo freddandolo con tre proiettili.

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