Sguardi da “Alcatraz”, la periferia della periferia d’Italia

di Lorenzo Natural

Melara - foto di Stefano Tieri

Alcatraz: un nome, un programma, verrebbe da dire. Eppure Melara, checché se ne sia detto, scritto, (s)parlato, non è questo coacervo di trafficanti, aspiranti criminali e suicidi che si vuol far credere. È un rione popolare come tanti, probabilmente molto meno difficile di tanti suoi “gemelli” sparsi in tutta Italia. Come sempre, però, l’estetica è stato lo strumento perfetto per rendere la fama e la nomea di questo quartiere degno di quella di Scampia. Un blocco unico di quattro lati – quattro ali – centrati su di un colle al limes di un quartiere residenziale, quello di Rozzol, e ora divenuto simbolo e piena realizzazione dell’edilizia popolare sul modello dell’architetto francese Le Corbusier.

I primi osservatori, cinicamente, l’hanno ribattezzata Alcatraz, appunto, come la prigione inespugnabile di San Francisco, una gabbia senza uscita. Già da fuori, salendo dalla Strada per Basovizza, il complesso popolare si presenta per quello che è: un totem grigio vomitato su di un costone della periferia est dell’estrema periferia est d’Italia. Parte integrante, seppur distaccata, inscindibile ormai da Trieste, anche simbolicamente. Eppure sempre in disparte, nell’indifferenza delle chiacchiere e delle notizie. A volte anche dall’amministrazione. È questo il tragico destino della periferia e di Melara stessa.

Cammino nei ballatoi dell’ala blu, la prima a destra arrivando da città da via Marchesetti. Devo incontrare un amico. Mi sento smarrito, non ho mai bazzicato più di tanto da queste parti. Non mi sento sicurissimo, eppure so benissimo che non mi potrebbe mai capitare nulla. Tuttavia è come se si fosse creata nell’immaginario del triestino, e quindi anche in me, una percezione completamente distorta di questa costola di città: qui ci vivono i reietti, gli scarti della società, gente che non può permettersi di stare nemmeno a San Giacomo o a Baiamonti. Ipse dixit. È come se, sotto sotto, ci fosse un non so che di esotico in questi silenzi che rimbombano tra le pareti di cartongesso. Più che ai Caraibi, però, mi sento proiettato in una landa afghana, ma percepisco qualcosa di estraneo, diverso. Incontro un ragazzo, un po’ sbriso, che sta facendo scorrazzare il suo cucciolo di rottweiler nel giardinetto: “Scusime, per via Pasteur 24?”. “Che ala xé, la rossa?”. “Sì, doveria eser la rossa”. “Ciò, stago Melara da 25 ani e no savesi gnanche come spiegarte… qua xe tuto un labirinto, no se capissi mai dove che te son. Scusime sa. ‘dio”.

La sua sensazione è la mia: camminando su questi nastri di linoleum nero sembra davvero di essere in un dedalo senza una chiara via d’uscita, dove ascensori, portoni, corridoi si susseguono in un tourbillon continuo, ma con un ordine geometrico ben definito, un’uniformità piatta dove tutto è uguale. La messa in pratica del paradosso di Escher. Il “quadrilatero”, appunto, esaltazione della perfezione geometrica, dell’ordine e della pulizia. Le quattro ali, contrassegnate dai contorni colorate alle finestre, marchiano definitivamente l’identità dei melarini, già marcata di per sé. “Ah, l’ala rossa… Sì sì, no passo quasi mai de là sa”. “No xe problemi qua sa, ma de sera xe meio no star là de la piazeta de l’ala giala… Conosso un do de lori che no me piaxi”. Un orgoglio, il loro, di abitare in questo simbolo di degrado sociale ed estetico. No, umano no, non vi è nulla di più degradante di quanto non ci sia nei nostri bei salotti del centro il sabato sera. Tuttavia questa quadricromia così sbiadita sancisce una ghettizzazione nella ghettizzazione, forgia un’identità malata nata per reazione a una città che ha escluso, allontanato, dimenticato i propri concittadini. Curioso come anche altri complessi urbanistici popolari triestini – le Case Rosse di Valmaura e i Puffi di Borgo San Sergio, altro rione nato con l’idea di essere un “villaggio indipendente” dalla città – richiamino nell’estetica questa forte identificazione centrata sul colore, quasi a voler evidenziare in maniera chiara e visibilmente impattante la differenza sostanziale tra chi è destinato a vivere lì e chi nel resto della città.

Oramai da tempo Melara è dotata di numerosi servizi: farmacia, posta, supercoop, sportelli sociali, ricreatorio, associazioni sportive, assistenza. Un piccolo mondo che potrebbe sostenersi in maniera autosufficiente: questo lo scopo degli architetti che l’han progettato. Ma proprio dietro a questa apparente buona intenzione si nasconde la diabolicità del piano: non serve che i melarini escano da Melara, qui hanno tutto ciò che serve loro. In un documentario del 2006 realizzato da Rodolfo Bisatti sul complesso popolare di Melara (disponibile cliccando qui), l’autore cerca di trasmettere il messaggio della trasformazione della zona da “quadrilatero a paese”. E se nelle intenzioni dei volontari e dei servizi sociali di rendere più vivibile il quartiere non c’è nulla di male, non si può non sottolineare che, d’altra parte, questa indipendenza tende più ad assumere i contorni di una forzata ghettizzazione. Paradigmatica, come raccontato nel video, di questo sentore è stata la volontà – simbolica – di posizionare il campo giochi all’esterno del quadrilatero in modo che i bambini del quartiere possano incontrarsi con quelli delle zone limitrofe a cavallo tra questi due mondi che qualcuno vorrebbe lontani e privi di scambi osmotici, ma che non hanno ormai nessun tipo di distanza, se non appunto di immaginario.

Se si ha la fortuna di stare ai piani alti, la vista da Melara è splendida, ma l’orizzonte sembra ancora più malinconico a vederlo da qui, da questo moloch di cemento grigio, colorato solo sugli infissi delle finestre e, più a fondo, nelle menti di chi ci vive. Dai ballatoi dell’ala verde il sole taglia il vetro degli oblò e riflette sui pavimenti la polvere sollevata da un ragazzino che gioca a muro col suo pallone. Il mare entra pervasivo, ma non si fa toccare, si rende sfuggente. Come una barca, le ali resistono alla marea. Gli occhi subitaneamente si perdono alla vista di un fumo bianco che si alza da un’altra parte di periferia triestina, più a sud. Perlomeno qui l’aria è gelida, pulita.
L’orizzonte vasto resta desiderato, ma irraggiungibile.
La percezione di Trieste, da qui, è distorta, perché la si guarda, finalmente, da fuori.

Trieste, in effetti, è diversa da qui.

L’Italia pure è diversa dalla periferia della sua ultima, estrema periferia.

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