di Stefano Tieri
Il manicomio è più vivo che mai. Piero Cipriano, classe 1968, psichiatra “riluttante” per sua stessa definizione, torna a ricordarcelo nel suo recente La società dei devianti, edito da elèuthera come i precedenti La fabbrica della cura mentale e Il manicomio chimico. Il nuovo libro di Cipriano è nato sotto il segno dell’urgenza: solo sette sono i suoi “mesi di gestazione”, da cui non si deve però dedurre di trovarsi davanti alla fretta narcisistica di uno scrittore assetato di successo. L’urgenza è dettata dalla quotidianità di chi vive e lavora – come l’autore – nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) e, più in generale, nei luoghi dove abita quella che ormai non viene più nemmeno chiamata “follia”.
Il “deviante” a cui fa riferimento il titolo del libro non è più necessariamente il “folle”, o meglio è la follia che viene ormai declinata, sotto la spinta dei manuali diagnostici e delle case farmaceutiche, in “etichette” che a un tempo la oggettivano e la estendono a parti sempre più ampie della società. Siamo tutti “folli”, a patto di non chiamare questo male follia: siamo depressi, bipolari, borderline, schizofrenici, schizoidi, hikikomori, psicopatici,… Le etichette mediche si accompagnano e intrecciano poi a quelle sociologiche, e allora saremo ancora: nichilisti, terroristi, zingari, migranti, rifugiati, apolidi,… Tutti soggetti da curare, trattare, rieducare, aggiustare – in una parola: normalizzare. Ma qual è la norma su cui basarsi, e in base alla quale coloro che vi si allontanano vengono definiti “devianti”? Su quali presupposti si fonda, e in cosa consistono le “etichette” che gli psichiatri attaccano a chi si presenta loro con una determinata sintomatologia?
Queste domande danno il la al testo di Cipriano e ne incalzano la narrazione, che parte – come i suoi lavori precedenti – dalle singole storie, le quali riguardano tanto i “curati” che i “curanti”. Ogni istituzione, ci insegna Michel Foucault, soprattutto quelle totali (come il manicomio, fisico o chimico che sia), costituiscono la soggettività di coloro che vi prendono parte. Essere malati o medici, da una parte o dall’altra della barricata, da questa prospettiva fa allora poca differenza: entrambi subiscono gli influssi delle tecniche di contenzione, delle procedure di normalizzazione, trasformandosi rispettivamente in vittime o in carnefici.
Diventa allora necessario interrogarsi su queste procedure, domandarsi se ve ne siano di differenti e quanto abbia ancora senso, a mezzo secolo di distanza dalla rivoluzione di Basaglia, concepire la libertà come terapia: Cipriano lo fa a partire dal suo osservatorio privilegiato (gli SPDC), interrogandosi anche su quella “follia” che sembra riguardare le persone “normali” in misura sempre maggiore. Pensiamo alla sindrome degli hikikomori, che in Giappone sta raggiungendo proporzioni preoccupanti, in cui i “malati” tendono a isolarsi completamente dal mondo all’interno della propria abitazione (o stanza), rimanendo connessi con l’esterno solo attraverso il pc: siamo poi così lontani da simili atteggiamenti, noi europei, nell’utilizzo compulsivo degli smartphone e nel modo in cui ci relazioniamo attraverso i social network? O ancora consideriamo la depressione, che ad oggi non ha – come osserva l’autore – una “definizione scientifica oggettiva”, eppure viene diagnosticata in misura sempre maggiore, anche a causa del DSM-5 (l’ultima versione del Manuale Diagnostico e Statistico, bibbia della psichiatria contemporanea), che ha esteso questa “patologia” a ogni forma di tristezza possibile, al punto che nemmeno il lutto si salva più e diventa depressione dopo sole due settimane. Per quanto tempo ancora potrà esservi qualcuno che, a detta di simili manuali, non necessiti di cure psico-farmacologiche?
Lo sguardo agile di Cipriano si sposta dalla stretta attualità (il caso del suicidio-omicidio del co-pilota della Germanwings, o ancora dei guerriglieri dell’Isis sotto l’effetto di droghe) a nosologie e manuali diagnostici con una leggerezza e agilità che è possibile trovare solo nello scrittore rodato. L’intento divulgativo, con la chiarezza che lo contraddistingue, non viene mai meno, e nonostante ciò il ritmo rimane serrato fino alle ultime pagine, quando i bersagli critici diventano la contenzione fisica e le conseguenti morti per Trattamento Sanitario Obbligatorio. Qui si scopre quanto le logiche manicomiali siano ben lontane dall’essere state superate, e quanto ancora alberghino nelle menti (queste sì, malate) di troppi operatori psichiatrici in Italia.
La società dei devianti conclude la “trilogia della riluttanza”: a Cipriano va il merito di star facendo parlare delle cattive pratiche in uso in ambito psichiatrico al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Un merito enorme: anche perché – e con Il manicomio chimico l’autore l’ha già ben dimostrato – la diffusione di queste cattive pratiche riguardano, sempre più, ognuno di noi. La scelta è nostra: voltarsi dall’altra parte o provare almeno a guardare il baratro verso cui stiamo precipitando?