di Lilli Goriup
A novembre sono ritornata in Bosnia-Erzegovina per sei giorni, assieme all’associazione “Tenda per la pace e i diritti”. Il reportage che segue è un insieme di spunti, suggestioni, racconti e testimonianze raccolte in loco, intrecciati a cenni della storia che è stata. Le fotografie che seguono (ad eccezione dell’ultima) sono di Michela Pusterla.
Si avvicina l’inverno, soffice crepitio sulla terra. Pomeriggio dolce, assolato, terso, sotto un cielo slavo del sud… Le parole di una bella canzone del Consorzio Suonatori Indipendenti accompagnano il mio ingresso in Bosnia, prima tappa: Mostar. Situata nella parte sud-orientale del Paese, è la principale cittadina della regione storica dell’Erzegovina. Jasna, che come molti, qui, non ha età, ci accoglie stringendoci la mano uno per uno. È la presidente di KOS, un’associazione di donne che dopo il conflitto si mobilita per dare assistenza a persone anziane e senza tetto. La sua stretta è calorosa e decisa. Come le mani di chi lavora, le sue non sono esili. Oltre a esse, dalle larghe vesti che fasciano la sua figura robusta sporge il volto, incorniciato da un colorato velo musulmano: particolare, quest’ultimo, che non cela ma, al contrario, ne intensifica la presenza, il sorriso impenetrabile, i larghi occhi bruni che punta dritti nei nostri. Non c’è lingua in comune tra lei e noi – tutte le testimonianze e i racconti che saranno riportati in seguito sono stati raccolti grazie alla mediazione di un’interprete – non c’è, però, nemmeno il bisogno di riempire per forza con parole questo nostro primo saluto. Jasna è bosgnacca. Un tempo fu jugoslava, o cittadina di Bosnia ed Erzegovina o mostarina; poco importava perché “prima della guerra non c’erano differenze”, dice. Dopo allora, però, la città non è stata divisa soltanto dal corso azzurro della Neretva. Nel 1993 è avvenuto il bombardamento da parte delle forze nazionaliste croato-bosniache che ha distrutto il ponte; un crollo anche simbolico, poiché lo stari most, il “vecchio ponte” appunto, edificato dagli Ottomani nel sedicesimo secolo, collegava le due parti della città, quella abitata prevalentemente da popolazione croata e quella a maggioranza bosgnacca. Ora si può attraversarne la fedele ricostruzione in pietra massiccia, soffermandosi ad ammirare, disteso lungo le sponde del fiume, il centro storico di una città che non ha ancora finito di ricomporre le sue lacerazioni.
Jasna ci accompagna attraverso il centro fino al piazzale di un complesso condominiale dove è rimasta nascosta per venti giorni, vent’anni fa, in una cantina adibita a rifugio dai bombardamenti, assieme al figlio di un anno e mezzo. Era per dare voce a bambini come quest’ultimo che i giornalisti della sede RAI di Trieste Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Ota si erano spinti a girare un documentario fin nel cuore del conflitto, quando sono stati assassinati da una granata, qui, il 28 gennaio 1994. A ricordarli due targhe, una più grande, istituzionale, posta dalla città di Mostar assieme alla Repubblica italiana, e una spontanea, per così dire dal basso, firmata “i cittadini di Mostar libera”.
Risalendo in direzione nord-ovest, in due ore e mezza si raggiunge la capitale. Sarajevo, incastonata tra le colline, restituisce il senso del crocevia. È spaesante passeggiare tra le strade del centro, nel tardo pomeriggio, quando d’autunno dai comignoli già sale il fumo, con il volto e le caviglie sferzate dal freddo, come alla fine di qualsiasi giornata triestina di questa stagione, e vedere il sole calare dietro le moschee e i loro minareti, dai quali echeggia il canto dei muezzin. Riconosco l’Holiday Inn, edificio simbolo dell’assedio, poiché da lì spararono i primi cecchini; mediatico, nel senso che fungeva da medium, tramite con il mondo esterno, attraverso i giornalisti che ospitava. Con pochi passi lungo le rive della Miljacka si raggiunge poi l’asburgica biblioteca degli Slavi del sud. Edificata tra il 1882 e il 1896, cent’anni dopo, nell’agosto 1992, fu incendiata dalle bombe dell’esercito della Republika Srpska, assieme a due milioni di libri, possibili percorsi, le mappe, le memorie… Adesso la colonna sonora è Cupe vampe, sempre dall’album Linea Gotica. Bruciarono al rogo e non a caso: Kanita Focak, interprete e intellettuale, racconta che di mira sono stati presi in primis i nodi “identitari” della città, e di come essa ha reagito di conseguenza. “Durante gli anni dell’assedio non è stato perso un solo anno di scuola” – ricorda fiera, così come ricorda dei teatri clandestini, dei corsi di danza o di lingue: una resistenza culturale, oltre che armata.
È a Sarajevo che incontriamo Jovan Divjak: uomo d’armi e dalla dignità d’altri tempi, serbo di nascita, sarajevese d’adozione, jugoslavo di professione e fedele alla linea del compito assegnatogli negli anni della federazione, cioè la difesa territoriale di Sarajevo. Quando l’ex Armata Popolare Jugoslava, che di tale ormai non conservava nemmeno il nome, disincarnato di qualsiasi significato, attaccò la sua città non ebbe dubbi: disertare e guidarne la difesa. Oggi Jovan Divjak ha settantasette anni e la sua presenza si regge solida sulle gambe, petto in fuori, in contrasto con i capelli canuti e i solchi che l’età ha inciso sul suo volto. Nel tempo sancito dalla pace di Dayton il generale dirige una fondazione non governativa, OGBH, che si occupa di fornire borse di studio e assistenza ai bambini vittime della guerra, come a quelli nati in seguito. Racconta della resistenza sotto l’assedio come di un dovere, senza concessioni al sentimento, ma quando le domande diventano incalzanti prende in giro il pubblico – cosa v’importa della guerra, dice, dovreste interessarvi alla pace. Alla luce della narrazione, in larga parte mistificata, del conflitto che è stato in quanto religioso, gli chiedo quale sia la percentuale di ateismo in Bosnia. Con il tono semiserio tipico dell’ironia bosniaca, mi risponde di scrivergli una mail tra sei mesi, quando saranno noti i risultati dell’ultimo censimento. Poi sorride, aggiunge: vuole sapere cosa sono io? Io sono un ateo. È stato un onore stringerle la mano, compagno Divjak; davvero, duro senza perdere la tenerezza.
A Sarajevo incontro anche Tarik, un passante sulla quarantina, che dopo aver identificato la provenienza italiota, mi aggancia con le poche parole che conosce della lingua da me parlata, mista a un po’ d’inglese. Mi chiede di dargli un buon punteggio su couch surfing, così da poter trovare qualcuno che l’ospiterà in Italia. Gli racconto del nostro viaggio e del fatto che domani ripartiremo. S’irrigidisce: “Srebrenica, don’t go there! It’s worse than Auschwitz”. La carovana s’inerpica su per le montagne, in direzione Srebrenica. Ci fermiamo a consumare un pasto caldo presso una baita lungo la strada, al limitare del bosco, dove assieme ai cevapi si serve la rakjia, la grappa, prodotta in casa. Alcuni ragazzi del gruppo vogliono immortalare con degli scatti l’omone che gestisce il locale mentre riempie le bottiglie che acquistiamo, travasando l’alcol, con fare esperto, direttamente da una tanica metallica da dieci litri. “Non c’è niente da fotografare – scherza lui – questa è vita di tutti i giorni”.
Il mattino dopo sembra quasi primavera. Soffia lieve il vento in mezzo ai due pendii tra cui è adagiato il memoriale di Potočari, a sei chilometri da Srebrenica; i muscoli intirizziti sotto i cappotti si rilassano sotto il sole di mezzogiorno. C’è silenzio a Potoari, e c’è una vasta distesa verde, che lo sguardo non può abbracciare in una volta sola. Lì sono disseminate, ordinate, le piccole lapidi musulmane, bianche e pulite. A ciascuna corrisponde un tumulo e sopra alcuni di questi la terra è fresca, smossa da poco: sono le tombe dei resti ritrovati di recente; dal 2004 l’undici luglio di ogni anno – anniversario del massacro – vengono infatti celebrati nuovi funerali ai corpi che riemergono dal sottosuolo. Finora hanno trovato qui sepoltura 6241 nomi, 6241 cognomi, lo stesso numero di date di nascita, piccoli segni di altrettanti vissuti. La data di morte invece è una sola: 1995. 1995. 1995, e così via, 6241 volte.
Di qui non passa la storia monumentale di cui parlava Nietzsche, che preserva mummificando il passato. Qui la storia è ferita aperta e squarcio; è una storia fatta di tante storie, ancora in opera per restituire la verità. Una storia da riattualizzare e rendere al futuro. Le maschere del conflitto etnico e della guerra tra tribù sono servite alla comunità internazionale per voltarsi imbarazzata altrove, mentre dei fascisti perpetravano un genocidio, salvo poi correre ai ripari quando era troppo tardi. Qui la storia insegna a diffidare dei discorsi che mettono sullo stesso piano tutti i morti e tutte le posizioni. Il massacro e la distruzione programmatica non sono sullo stesso piano di chi imbraccia le armi per difendersi, e nel silenzio un pensiero si rivolge a Kobane.
Dall’altra parte della strada si trova una fabbrica abbandonata, ex accampamento dei caschi blu olandesi, poi luogo del massacro. Tra i macchinari di ferro in disuso e le alte mura di cemento essa ospita ora, come la sala all’interno del memoriale – l’esigenza di testimonianza e di cultura non sono mai assenti in Bosnia – una mostra fotografica e la proiezione di un crudo documentario, scevro di qualsiasi preoccupazione moralistica nei confronti della politically correctness. Il documentario è un montaggio di filmati amatoriali, fatti alla bell’e meglio, strappati via alla trama della storia, sovrapposti alle voci, prive di mediazioni, dei testimoni sopravvissuti al genocidio. Le esecuzioni avvengono davanti ai miei occhi, in diretta differita di vent’anni, con la mediazione del narratore, che impugna la telecamera, ridotta al suo grado zero, praticamente assente. Dopo la proiezione del filmato è seguita una ventina di minuti di silenzio, da parte di tutti. In compagnia di e facendo i conti solo con se stesso, ognuno ha spontaneamente rifuggito il contatto con l’altro; qualcuno ha pianto.
In mezzo a quell’unica catastrofe di documenti, una fotografia su tutte mi ha trafitta: l’immagine di una riesumazione. È il primo piano di una mano che spunta dalla terra scavata. Una mano livida, erosa dalla decomposizione. Un’altra mano, vestita di un guanto bianco, la sfiora e pare che le due mani si tocchino. Nell’attimo catturato da quello scatto, la prima sembra una mano redenta. I morti però non possono toccare.
Note: Bosgnacchi: la popolazione musulmana che risiede sul territorio della Bosnia Erzegovina. Da non confondere con “bosniaco”: termine che indica genericamente la cittadinanza e che oggi non ha significato ufficiale di utilizzo, poiché gli accordo di Dayton (1995.) prevedono, tra le altre cose, che ogni cittadino indichi, al registro anagrafico, la sua etnia d’appartenenza: bosgnacca, croata o serba. Da notare come alcune minoranze, come quella rom o ebraica, non sono contemplate in sede istituzionale.
Fonte: <https://encryptedtbn0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcTo2nBpA2zHOkj8r7cvyYYwbaPvpF4ptz0lsOFIvSp_8UZ1LQ6fdQPa>