di Daniele Lettig
Sono solitario, non solo. Così esprimeva la sua condizione Sergio Cocetta, il partigiano ‘Cid’, “maestro e mentore” di Danilo De Marco.
Ed è stato proprio Cid, scomparso due anni fa, il nume tutelare della ricerca ormai più che decennale (anche se “prossima alla fine”, come scrive l’autore) che ha portato il grande fotografo friulano a immortalare i volti di migliaia di reduci della guerra partigiana: prima in Friuli, e poi in tutta Europa.
Un lavoro epico, necessario e vitale non solo per De Marco ma anche per chi questi ritratti li osserva da spettatore: sia nelle enormi, stupende stampe in bianco e nero della mostra allestita a palazzo Gopcevich a Trieste, sia nel bel libro omonimo Partigiani di un’altra Europa.
Quelli immortalati da De Marco sono volti dei quali non ci si dimentica facilmente. Visi che esprimono una “forza del passato” di cui oggi sembriamo avere smarrito le tracce: ci ricordano “che questo è stato”, che è grazie ai loro sforzi che godiamo i frutti una libertà da noi mai abbastanza valorizzata.
“Eccoli qui allora – scrive l’autore nel volume – i loro volti oggi, i volti dei ribelli di allora segnati dal tempo; volti che ci riguardano e ci concernono. L’inquadratura è ripetitiva e chiusa, come si usa con le foto segnaletiche dei delinquenti, dei banditi”. I loro occhi – perché sono quelli che colpiscono prima di ogni altra cosa: occhi buoni, diretti, chiusi, profondi – ci guardano e nel contempo ci raccontano che cosa hanno visto, che cosa hanno provato e combattuto per regalarci un dono così importante.
E tuttavia: non sono soli, ma sono solitari: perché noi troppo spesso ci dimentichiamo o ci siamo dimenticati di loro, e perché, era ancora Cid a dirlo, “essere sopravvissuti è già difficile, ma la colpa maggiore che abbiamo è che non volevamo questo…”. Ma ciò non cancella il valore di una scelta, di molte scelte: ciascuna singola e individuale eppure legata intimamente a quella degli altri, compiuta a un’età in cui oggi noi tutti siamo non più che bambini che si trastullano con gli ultimi ritrovati tecnologici.
Forse allora siamo noi ad essere soli seppure non solitari, in un ribaltamento di prospettiva che porta ciascuno a isolarsi sempre più, convinto per paradosso di essere connesso (“basta un clic!”) al mondo intero. E perciò essere guardati dai volti che De Marco ha scolpito nei suoi negativi – già, perché sono loro a guardarci, anzi a scrutarci in un profondo che non sappiamo di avere o preferiamo rimuovere – è un’esperienza che richiede non una mera contemplazione, o uno sterile ringraziamento o ricordo. Ci impone invece un impegno quotidiano, per squarciare il velo opaco della nostra indifferenza.