Presentazione del nuovo numero di Charta Sporca, in uscita giovedì 10 dicembre
di Piero Rosso
“A lungo, mi sono coricato di buonora” è l’inizio di un libro – la Recherche di Proust – che parte da una stanza buia, una notte e molto silenzio. Una celebre prima pagina che vogliamo impiegare – quante migliaia di volte è già stato fatto? – per introdurre questo nuovo numero di Charta Sporca.
È famosissimo il giudizio del direttore della casa editrice Ollendorff, Alfred Humblot, che rifiutò il manoscritto dello scrittore francese: “forse sono duro di comprendonio ma per me è inconcepibile che un uomo impieghi trenta pagine per descrivere il suo girarsi e rigirarsi nel letto prima di prendere sonno”. Possiamo concentrarci su questa frase fastidiosa che ci obbliga a ricordare: queste prime pagine, oltre a riprendere e superare il romanzo realista francese, oltre a cominciare una progressiva distruzione della soggettività dell’uomo borghese e a preparare il terreno alla lungo vagabondare della memoria e del tempo, è davvero il racconto di un uomo e della sua battaglia con il cuscino per andare a dormire. È questo filo che introduce il primo episodio di Marcel bambino che prova angoscia nella camera da letto; è dal ricordo di questa solitudine che nasce la consapevolezza di come la memoria volontaria non trattenga nulla di reale. Combray, il paese che ricorrente appare in questo modo, dice Proust, “in effetti, era morto”.
Il mondo dello scrittore stava cambiando, visione e ascolto erano impegnati diversamente nella grande città, la solitudine non era più quella del piccolo paese ma sempre più un vuoto da riempire. La folla diveniva parte del paesaggio, il consumismo obbligava gli individui a farne parte (p. 2). Ancora oggi, chi non riesce a dimostrare di aver “riempito” a sufficienza non è degno di far parte della società: il ladro in galera è un cliente che non ha comprato, il muto è una bocca che non ha parlato, il sordo è un orecchio che non ha sentito (p. 3).
Alla luce di ciò, spendiamo un minuto per pensare diversamente la solitudine, non riconduciamola a una devianza. Possiamo ricordarci degli esperimenti del passato, quando isolarsi era combattere (p. 4); oppure, possiamo provare a raccontare in altro modo la vita dei solitari, per evitare il tranello mitologico delle biografie (p. 5).
Sarà, forse, proprio una solitudine notturna, riscoperta in un sogno di paese (p. 11), a ricordarci che Proust non cercò di riempire i vuoti della notte; aspettò che affiorassero da soli, e che fossero loro a riempirlo.