di Livio Cerneca
Camminavo un tardo pomeriggio di qualche giorno fa lungo il canale. Non c’era molta animazione, faceva freddo, e poi, tra capodanno e la Befana, la città è sempre poco amichevole. Tuttavia, alcuni locali avevano i tavolini fuori, e per offrire una carezza tiepida ai pochi clienti che preferivano stare all’aperto per fumare, erano state accese quelle stufe fatte apposta per l’esterno, scheletri di totem dentro i quali si agita il lungo pennacchio di una fiamma vivace.
Attaccata, quasi abbracciata a una di queste colonne di fuoco, c’era lei. Fissava incantata la fiamma che le illuminava il viso, ed è così che sono riuscito a riconoscerla. Era una barbona, una donna dai lineamenti ancora delicati nonostante abbia trascorso la maggior parte della sua vita per strada.
Un giorno di quasi trent’anni fa era stata portata di peso presso una struttura sanitaria di accoglienza. Era sporchissima, puzzava di quel tipico odore che si sprigiona dalla miscela letale di urina, tabacco e sudore. Dava in escandescenze, non voleva che nessuno la toccasse, e perciò ci vollero tre inservienti e due o tre ore per lavarla e districarle i capelli che erano diventati una massa compatta di stoppa sfibrata. Buttarono via i suoi stracci, la rivestirono con abiti puliti e la pettinarono.
Le tre operatrici uscirono dal bagno distrutte, la lotta era stata cruenta e interminabile, ma ciò che apparve agli occhi dei presenti fu memorabile. Una giovane donna di bellezza straordinaria, con lunghi capelli biondi e, secondo la testimonianza diretta delle stesse operatrici, un corpo statuario, entrò nella sala dove venivano serviti i pasti. Nessuno si rese subito conto che era proprio lei, la barbona indemoniata.
Restò a pranzo, tentarono di convincerla a fermarsi almeno per qualche giorno ma lei, terminato di mangiare e dopo aver ancora ascoltato controvoglia spiegazioni e preghiere, ignorò tutto quel buonsenso e se ne andò.
È probabile che avesse dei problemi psichici, certo, e che sarebbe stato più vantaggioso per lei approfittare di quell’invito. Ma dovremmo prendere atto che esistono persone che manifestano il loro spirito libero in modi che noi non possiamo comprendere.
Non tutto si può capire, però ogni scelta di vita che non danneggi il prossimo andrebbe rispettata, anche quando viene presa da persone malate. E avremmo anzi proprio noi il dovere di agevolare la complicata esistenza di queste anime vagabonde preparando per loro degli spazi nelle città dove possano trovare rifugio quando l’inverno azzanna le ossa.
È giusto garantire a tutti un pasto e un letto, l’assistenza medica e l’aiuto necessario, ma dobbiamo anche riconoscere il diritto di ciascuno di rifiutare tutto questo e di vivere allo stato selvatico e nomade, che in definitiva è il modo di esistere cui eravamo tutti originariamente destinati.