Presentazione del nuovo numero di Charta Sporca, in uscita lunedì 9 febbraio
di Davide Pittioni
C’è un’immagine che segna i miei ricordi di infanzia: quella di una fabbrica in abbandono incastonata nel bel mezzo del quartiere residenziale dove abitavo. Quel capannone stilizzato era ormai accerchiato dai condomini e dalle villette a schiera che nel tempo erano state costruite e sembrava ai nostri occhi colmi di meraviglia un’entità mitica – ricordo che con un certo timore la chiamavamo semplicemente “la fabbrica”. Era ormai ridotta alla sua superficie disegnabile e seguiva le misteriose leggi di stratificazione dei murales e dei graffiti.
Nel suo divenire rovina, la fabbrica tratteneva la tensione tra due segni opposti: uno interno, che mostrava la sua vita oltre la destinazione originaria, e l’altro esterno, nel rapporto come luogo inutile con il suo ambiente, come vuoto del tessuto urbano. In questa sovrapposizione di significati si poteva scorgere il sintomo delle trasformazioni di quello spazio, l’indice temporale della storia che lo aveva attraversato. La città si allargava, assorbiva ciò che le stava fuori, e nel frattempo ridisegnava i suoi confini. Si creava periferia nell’equilibrio tra il movimento di inclusione e di esclusione dello spazio, nel paradosso di un fuori che delimita il dentro. (“Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”, annota Calvino nelle Città invisibili). Un movimento ininterrotto che seguiva un percorso osmotico, a tratti caotico, ma che tracciava lo spazio e lo ordinava: era una vera e propria geografia, tutt’altro che neutrale. Foucault in Sorvegliare e punire scrive: “la disciplina procede prima di tutto alla ripartizione degli individui nello spazio”. E così potremmo pensare la città e la periferia: “diagramma del potere che agisce per mezzo di una visibilità generale. Ritroveremo a lungo, nell’urbanistica, nella costruzione delle città operaie, di ospedali, di ospizi, di prigioni, di case d’educazione, l’incastrarsi spaziale delle sorveglianze gerarchizzate”. In questa scrittura apparentemente disordinata si potevano leggere i geroglifici sociali dell’esercizio di un potere.
Deleuze, a partire dalle riflessione foucaultiane, suggerisce che progressivamente “le società di controllo stanno sostituendo le società disciplinari”. Ci muoviamo ormai in uno spazio diverso, una spazio liscio, globalizzato, informatizzato. Potremmo chiamarlo mercato. Il concetto stesso di periferia si relativizza, nello spazio e nel tempo: la periferia si affaccia nel mondo, diviene il sud del mondo, e si complica, cortocircuita gli spazi metropolitani – e le loro ripartizioni interne – con gli spazi e i confini globali. Sembra produrre, piuttosto che sostituzioni, nuove stratificazioni, nuove forme che si innestano sulle precedenti, invecchiandole, trasformandole, riqualificandole, per usare un’espressione assai di moda. Nuovi centri si formano a partire da nuove periferie: cosa sono in fondo i centri commerciali, nella loro posizione periferica, ma perfettamente centrata e autonoma?
Se lo spazio si fa astratto, composto com’è dai flussi numerici di capitali, merci e informazioni, rimane tuttavia la materialità dei segni che lo trasformano, le rovine, le forze, i bisogni che lo frastagliano. Tutte quelle forme che, come graffiti su un muro, lo riscrivono continuamente.